Food Beverage

Il controllo dei costi nella ristorazione: dove comincia, come funziona

Quando si parla di gestione economica di una attività produttiva, chissà perché, noi italiani pensiamo subito al tema dei costi. Importantissimo, certamente, ma non è l’unica e probabilmente nemmeno la più importante di tutta la gestione di una impresa, manifatturiera o di servizi che sia.

Il lettore frettoloso penserà che la sto sparando grossa, ma chi si intende di come funzioni per davvero l’equilibrio costi-ricavi di una impresa capirà senza dubbio perché.

Innanzitutto mi permetto di dire, operando in questo settore da alcuni decenni, che l’”ossessione” dei costi è una mania molto italiana ma, paradossalmente, siamo anche poderosi e a volte stravaganti (sotto)cultori della materia.

Software gestionali, un errore snobbarli

Questo per due ragioni; la prima derivante dall’osservazione e conoscenza del settore, dove ancora oggi riscontro una diffusa carenza di software gestionali che, se ci sono, gestiscono egregiamente solo gli aspetti legati al tavolo, all’ordinazione (la famosa comanda) e all’incasso omettendo la seconda parte del controllo che è quella appunto dei costi, senza i quali non è possibile elaborare raffronti di alcun genere.

La seconda, perché tenendo anche corsi di formazione da più di 20 anni, ho incontrato diverse centinaia di partecipanti molti dei quali con le stesse lacune di base (e purtroppo non solo) derivanti da inciampi formativi nei quali erano incorsi in altre occasioni e nei quali la competenza sull’argomento non è stata propriamente un plus della circostanza.

Chiunque si occupi di gestione economica di una impresa sa benissimo che i costi sono funzione degli incassi, cioè all’aumentare dei secondi corrisponde una adeguata diminuzione dei primi, proprio così, per dinamiche facilmente intuibili, chiamatele di economia di scala o come preferite, ma funziona in questa maniera.

E gli incassi, dipendono anche da politiche di mercato prima ancora che di impostazioni del controllo, come è invece per i costi. Inoltre, la ristorazione è sì un’attività produttiva ma per le sue specifiche caratteristiche viene inquadrata nel settore dei servizi e non in quello manifatturiero. La distinzione non è meramente accademica, quanto soprattutto funzionale.

Come si quantificano i costi nella ristorazione

Nelle imprese manifatturiere il costo (a qualunque livello lo si analizzi) è predeterminabile poiché l’attività è di tipo “a commessa”, cioè si lavora su lotti di produzione ben definiti e programmati, sui quali si spalma l’intera curva dei costi preventivati ed conseguentemente sostenuti.

Nella ristorazione, dove la produzione (tranne pochissime eccezioni) è pressoché contestuale al consumo e perciò soggetta alla sostanziale imprevedibilità della domanda, i costi effettivi della produzione sono determinabili solo a posteriori rispetto all’output, che è l’attività nel suo complesso e la loro misurazione si calcola a valore medio per unità di prodotto realizzata (non quella venduta).

Unica eccezione a ciò, è l’attività di banchettistica laddove questa venga esercitata in maniera esclusiva ed unica in tal senso. Chiunque si occupi di gestione economica dell’attività, ha certamente appreso i fondamentali delle caratteristiche dei costi, notoriamente distribuiti tra fissi e variabili, con l’estensione a quelli semi-fissi e semi-variabili tipici della scuola italiana.

Costi fissi e variabili, le dinamiche

Per semplicità di valutazione, nel nostro settore i costi è preferibile distinguerli solo nelle prime due categorie e, cosa soprattutto importante, nella ristorazione se c’è un costo che può considerarsi variabile, questo è inequivocabilmente rappresentato solo dalle derrate alimentari, il food e il beverage, appunto.

Tutte le altre voci di costo sono, e vanno, considerate fisse, vuoi perché è più semplice capire come funziona l’attività, vuoi perché essendo una attività di servizio, per determinare l’incidenza dei costi (fissi e variabili) per cliente servito o per output realizzato, solamente alla fine del ciclo produttivo è possibile fare questa misurazione.

Anche qui, la distinzione del termine di paragone (benchmark) utilizzato (cliente o produzione) non è casuale ma essenziale, in quanto il valore che ne scaturirebbe è differente; se si misura il costo rispetto al cliente servito (che paga) è una cosa, altro è rispetto al prodotto impiegato che non coincide mai con la produzione venduta.

Per capire questa distinzione, basti pensare ai panini del bar piuttosto che alle pietanze del self service o del buffet rimaste invendute a fine servizio o giornata e recuperate ad altri scopi (personale o altro ancora), sulle quali comunque grava il costo di realizzazione a fronte, però, del mancato incasso.

Inoltre, sono davvero rari i casi in cui è possibile che la produzione sia realizzata in assenza di magazzino, ovvero che tutto quanto disponibile al mattino a fine giornata sia completamente esaurito.

Una cosa del genere, è possibile solo in attività di catering esterno dove si produce esattamente per il numero di convitati conosciuto e paganti e a fine giornata poco importa di ciò che rimane di trasformato ma non consumato.

Il ciclo della ristorazione

La ristorazione commerciale è, tra le altre cose, una attività circolare o a flusso continuo e necessita di rispettare il classico “ciclo della ristorazione”, cioè: acquisti, produzione, vendita, che generano i cosiddetti indicatori di base, o indici primari: il food cost e il beverage cost.

Sono, questi due, gli elementi da cui scaturiscono tutta una serie di altri dati importantissimi da elaborare e conoscere per capire come va effettivamente l’attività. Dai due indici primari si approda, attraverso una corretta impostazione del circuito di controllo, alla conoscenza di altri indicatori di costo, o di tipo aggregato (per categorie di prodotto) o di tipo analitico (la ricetta standard).

Ma senza rispettare il suddetto “ciclo della ristorazione” che si chiude con l’esecuzione degli inventari periodici, non è possibile determinare questi dati e men che meno fare dei raffronti di alcun tipo. Perché se è vero che il costo è un dato importante, per capirne il valore (peso) effettivo va contrapposto al suo antagonista, cioè il prezzo unitario di vendita piuttosto che l’incasso totale.

Il controllo dei costi nel settore alberghiero

Inoltre, le modalità di controllo sono differenti a seconda che si tratti di un semplice ristorante indipendente piuttosto che di albergo, di un ristorante misto (bar, pizzeria, ristorante) o ristorazione collettiva.

Nel settore alberghiero, in particolare, dove l’output è rappresentato da differenti terminali (ristorante, bar, room service, sala breakfast, eventi e magari altro ancora) le modalità del controllo dipendono dalle risorse disponibili (tecnologia e persone) e quasi sempre, gli indicatori elaborati sono di tipo medio invece che analitico, per una semplice questione di praticità e convenienza economica.

Controllare, quando ha a che fare con la raccolta e soprattutto l’elaborazione dei dati, impegna risorse che non tutti si possono permettere e per questa ragione si adottano indicatori del tipo su descritto, cioè a valori medi.

A questo proposito, basti pensare alle difficoltà che emergerebbero se in fase di inventario si fosse “obbligati” a quantificare le rimanenze secondo uno dei due metodi conosciuti, il FIFO o il LIFO.

Questi due, non hanno nulla a che fare con le metodologie di stoccaggio e prelievo dei prodotti perché riguardano invece dei criteri contabili che segue il fiscalista a fine anno per la determinazione dei valori cosiddetti “sospesi” (le merci in rimanenza) ai fini della determinazione della redditività d’impresa.

Il primo (First In, First Out) prende in considerazione il valore di acquisto più “vecchio” (i primi prodotti acquistati nell’esercizio contabile), il secondo quelli più recenti. Provate a pensare cosa succederebbe se fosse il magazziniere a doversi occupare di seguire questo criterio per elaborare gli inventari di periodo!

I formatori buontemponi

Purtroppo, da diversi anni, qualche buontempone formatore ha scambiato la traduzione dell’inglese per una tecnica di stoccaggio e prelevamento dal magazzino, omettendo di approfondire il significato economico e così in tanti, ancora oggi, raccontano una storia per nulla esatta.

Inoltre, senza la disponibilità degli indici primari, non è possibile capire la funzione del prezzo e il valore degli incassi e la gestione diventerebbe un’attività che naviga a vista. A cascata, senza questi dati, non è possibile conoscere il margine commerciale, cioè il valore monetario col quale si pagano tutti gli altri costi della gestione, cioè quelli fissi.

E la prima voce di “peso” dei costi fissi è proprio quella del personale, il cui valore (peso) dipende solo ed esclusivamente dalle politiche di retribuzione ma, ancor di più, dal valore degli incassi, perciò stabilire a priori una percentuale di costo dello staff è un mero esercizio di astrazione poiché questa dipende anche dagli standard di servizio prefissati.

Poco importa se il cameriere o il lavapiatti viene pagato con il voucher o in outsourcing, questo è e rimane un costo fisso della gestione poiché nessun manager competente e serio si sognerebbe di valutarlo come un costo variabile dell’attività.

La domanda è: “…variabile rispetto a cosa?” La variabilità non è nella frequenza di impiego; se lavora un determinato numero di ore e serve per una specifica situazione, è un costo fisso rispetto a quella stessa situazione, a meno che non lo si paghi per clienti serviti o per piatti e padelle lavate, allora sì che diventerebbe un costo variabile. Dubito però che qualcuno si presti a lavorare così.

L’elaborazione del costo unitario del prodotto, invece, (la ricetta) è essenziale per stabilire il prezzo di vendita attraverso i due metodi più comuni, il mark up e il fattore di moltiplicazione; senza di esso, però, non sarebbe possibile nemmeno poter stabilire quanto rende un piatto (margine unitario) e quindi non poter nemmeno elaborare la famosa matrice di Boston, a cui si ispira il modello del “menu engineering” che fa tanto effetto nei corsi di formazione ma la cui praticabilità, nel contesto ristorativo italiano, è quantomeno improbabile. (A proposito di menu, ecco alcuni consigli utili)

A chi giova il sistema di controllo

Un’ultima domanda è: serve dotarsi di un sistema di controllo? La risposta è: sì, se sei un locale misto (ristorante-pizzeria-bar o) o di dimensioni importanti (albergo, centro cottura, ristorazione veloce e collettiva); no, se sei un piccolo artigiano del mestiere, una tipica trattoria a gestione familiare.

Spesso, mi è capitato di incontrare piccoli ristoratori, onesti operatori che sapevano cucinare bene prodotti semplici ma decenti e servire il cliente in maniera garbata.

Quando mi chiedevano se dovessero cedere alla tentazione di dotarsi di un software di controllo, rispondevo che per le loro caratteristiche la migliore forma di controllo era rimanere come erano e aver cura del cliente.

Questo approccio è molto più lungimirante che quello di tante altre situazioni dove vedi camerieri che circolano con palmari e lettori ottici in tasca ma che servono prodotti di qualità discutibile e a prezzi sfacciati.

Ognuno può decidere di essere quel che crede, ma alla fine è sempre il cliente che sceglie se premiarti oppure no e da lui, che paga e spende, derivano il valore effettivo dei costi, degli incassi e del profitto. Al netto di monkey business.

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