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Miscellanea

#95
#98
Va di moda cavalcare l'onda, anzi, è una consuetudine.
In questi tribolati giorni non si fa che parlare di divergenze fra nazioni: Germania contro Italia, Olanda contro Spagna, Eurodeputati contro che hanno tutti ragione da vendere. E giù dibattiti, discussioni sia nelle televisioni fino al Parlamento Europeo, che di europeo sta dimostrando di avere ben poco.
Il tutto "strombazzato" e "grancassato" in un concerto cacofonico che assorda e confonde.
Che a me personalmente disturba più del virus.
In realtà, secondo il mio modesto avviso, la storia è più semplice e banale: basta guardare in casa nostra, ai nostri panni sporchi ed è tutto chiaro.
Chi vuole intendere lo faccia.
Leggete questo articolo.

Il Pd: "Un contributo di solidarietà da chi ha redditi più alti". Forza Italia; "No alla Corona-tax"

https://www.repubblica.it/politica/...40966/?ref=RHPPLF-BH-I253644671-C8-P1-S1.8-T1
 
#99
Eurogruppo, tra incoscienza e intese poco cordiali
Orizzonti europei. Gli stati del nord sono ancora restii ad approvare meccanismi di socializzazione del debito. Ma la possibile debacle economica degli stati del sud potrebbe avere conseguenze nefaste anche sulle più solide economie teutoniche

Luigi Pandolfi
EDIZIONE DEL10.04.2020
PUBBLICATO9.4.2020, 23:57
AGGIORNATO10.4.2020, 11:32
J. M. Keynes, che di certo non era un rivoluzionario, all’alba degli anni Trenta del secolo scorso scriveva che «i devoti del capitalismo sono spesso eccessivamente conservatori e respingono riforme nella sua tec-nica, che in realtà potrebbero rafforzarlo e preservarlo». Metafora perfetta di quanto sta accadendo adesso in Europa, dove, nonostante lo spettro di una crisi che si annuncia più dura di quella del 1929, alcuni Paesi rimangono attaccati ai loro preconcetti ideologici. Anche a costo di rimetterci l’osso del collo.
Non è servita a molto la pausa di 24 ore dopo il fallimento del primo giro di discussione in seno all’Eurogruppo. L’«asse del nord», capeggiato dall’Olanda e dalla Germania, continua ad opporsi all’ipotesi, caldeggiata in primo luogo dall’Italia, di uno «strumento di debito comune» per fronteggiare in solido lo tsunami che si sta per abbattere sul Continente, mentre rimane nel limbo la proposta francese di istituire un «fondo di solidarietà» in grado di emettere obbligazioni a lungo termine.
450 miliardi di euro, che servirebbero a finanziare i servizi pubblici essenziali, come quelli sanitari, e andare in soccorso dei settori più colpiti dal blocco delle produzioni, dalla frenata del commercio e dai limiti imposti alla mobilità delle persone.
Eppure, la Germania dovrebbe valutare attentamente l’impatto che la rovina degli Stati del sud potrebbe avere sul suo export e sulla sua «manifattura allargata». Tra le conseguenze del coronavirus ci saranno anche, presumibilmente, una regressione del processo di globalizzazione dei mercati ed un restringimento delle catene di produzione del valore. Dove sta la logica nel condannare all’inferno i propri partner attuali e potenziali? Secondo una stima riportata dal Financial Times, l’economia tedesca subirà una contrazione del 10% da qui a giugno, una cosa mai vista dal 1970 (anno d’inizio della serie storica dei conti trimestrali) ad oggi.
È proprio il caso di dire che «dio acceca chi vuole perdere». La crisi che abbiamo alle porte non è paragonabile a quella di dieci anni fa. Non si tratta di uno shock finanziario che colpisce in maniera asimmetrica l’Europa. E l’Unione europea nel suo insieme che rischia un’ecatombe di posti di lavoro e delle sue attività produttive.
L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo) stima che per effetto del coronavirus in Europa ci sarà una riduzione del 7,8% delle ore lavorate nel secondo trimestre di quest’anno, 12 milioni di lavoratori a tempo pieno. Una situazione da far «tremar le vene e i polsi», che richiede risposte nuove, strappi significativi con le regole, scritte e non scritte, sulle quali si è basato finora il processo di integrazione.
Certamente la soluzione non può essere il Mes, che per i tedeschi e gli olandesi rientrerebbe tra le «soluzioni diverse dagli Eurobond». Non è accettabile che mentre le altre grandi banche centrali del mondo si spingono verso forme più o meno ardite di monetizzazione dei deficit di bilancio (la Bank of England ha annunciato che finanzierà direttamente la spesa aggiuntiva del governo), in Europa gli Stati membri debbano soggiacere ad una disciplina di erogazione di prestiti costruita sul modello del settore creditizio privato.
Il Fondo Salva Stati utilizza i propri strumenti di sostegno «nella prospettiva del creditore», valutando la capacità di rimborso del debitore e i livelli di remunerazione del capitale. Proprio come nel rapporto tra una banca commerciale qualunque e i suoi clienti. Con una differenza: le banche commerciali non pretendono di decidere quante volte al giorno possono mangiare i loro mutuatari. Ma poi, di che grandezze parliamo? Se il finanziamento non può eccedere il 2% del Pil degli Stati che ne fanno richiesta, per l’Italia il tutto si ridurrebbe a non più di 36 miliardi di euro. Un po’ poco per accettare in casa la Troika.
Intanto, la realtà incalza: serve uno sforzo finanziario eccezionale per evitare il collasso dell’economia europea. Dopo il lockdown, milioni di persone rischiano di finire per strada non per godersi la ritrovata libertà di movimento, ma perché nel frattempo avranno perso il loro lavoro. Non possono bastare il piano da 200 miliardi della Bei per le imprese e il cosiddetto progetto SURE da 100 miliardi annunciato dalla presidente della Commissione per finanziare, su richiesta dei singoli Stati, strumenti di stabilizzazione automatica come la cassa integrazione. Messi insieme non superano il piano di garanzie per le aziende che l’Italia, da sola, è riuscita ad approntare con l’ultimo «decreto liquidità».
O si condividono i rischi legati alla raccolta delle risorse sul mercato o si finanziano direttamente i deficit aggiuntivi degli Stati con nuova moneta. Non ci sono alternative.

https://ilmanifesto.it/eurogruppo-tra-incoscienza-e-intese-poco-cordiali/
 
Coronavirus, c'è un italiano al sicuro nell'Artico

Tecnico dell’Istituto di Scienze Polari, sarebbe dovuto rientrare in Italia per i primi di aprile

Tra le tante storie legate alla pandemia da Coronavirus che ha stravolto la vita di tutti a livello globale, c’è quella di un ricercatore italiano rimasto bloccato nell’Artico a causa dell’emergenza. E sarà proprio il virus a stabilire quando potrà fare ritorno a casa.


Si tratta di Marco Casula, 28enne di Padova, tecnico dell’Istituto di Scienze Polari del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr) di Venezia, che al momento si trova nella stazione di ricerca Dirigibile Italia, che il Cnr gestisce nelle Isole Svalbard, a Ny-Alesund. La cittadina è uno tra gli insediamenti scientifici più a Nord del mondo, situato a circa 1000 km dal Polo Nord.

In queste ore in cui l’Italia e il resto del mondo si trovano a fronteggiare la pandemia da Coronavirus, Marco Casula è isolato per scelta e al sicuro in uno dei due luoghi sulla Terra, insieme all’Antartide, che non sono stati toccati dal Covid-19.

Il perito chimico veneto era partito dall’Italia il primo gennaio 2020 e inizialmente il suo rientro era previsto per il 20 marzo. La data è stata poi posticipata ai primi di aprile per motivi tecnici/organizzativi. Al momento, però, Marco Casula è rimasto bloccato nella stazione di ricerca in Artico, in attesa che l’emergenza Coronavirus rientri.

Non potendo essere sostituito, resterà a portare avanti da solo il suo lavoro nella stazione situata nelle fredde Isole Svalbard, per non interrompere la serie climatica di dati che l’Italia sta raccogliendo in Artico da oltre 10 anni. Ironia della sorte, proprio lì è stata girata la parte tra i ghiacci del film “Quo vado?”, di Checco Zalone.

Marco Casula lavora come tecnico responsabile di campionamenti ed esami di laboratorio per l’Istituto di Scienze polari del Cnr che ha la sua sede principale all’interno dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Unico in Italia e tra i pochi al mondo, il dottorato di ricerca in Scienze Polari forma scienziati in grado di comprendere come gli impatti dei cambiamenti climatici in corso abbiano effetto sulle aree polari e come queste reagiscano di conseguenza.

Il ventottenne veneto è l’unico italiano, fra 30 ricercatori presenti nella cittadina di Ny-Alesund, a occuparsi del campionamento di particolato atmosferico e di neve superficiale per lo studio del clima. Di certo, quando a gennaio è partito dall’Italia per raggiungere la stazione di ricerca nell’Artico, non avrebbe mai immaginato che a decidere del suo ritorno a casa sarebbe stato un virus.

inItalia Magazine
 
IL NEMICO NUMERO UNO
Olanda, chi è Mark Rutte il taccagno che sogna l'Italia in mutande

di Giovanni Masotti
11 APRILE 2020


Lungagnone e goffo, una risata che assomiglia di più a un ghigno, l’abitudine a stringere gli occhi dietro le lenti da miope senza montatura. No, non è uno quello che definiremmo un simpaticone l’uomo che detiene ormai a buon diritto la palma di peggior nemico degli italiani, il castigatore della solidarietà e il can guardiano del rigore dei bilanci europei, l’illuminato statista che ha discettato con sprezzo su noialtri sudisti proclamando che è meglio regalarci pochi soldi piuttosto che prestarcene tanti (nel senso, ovviamente, che - a suo avviso - non li restituiremmo mai). Eppure, di riffa o di raffa e cambiando disinvoltamente per tre volte i partners di governo, il 53enne Mark Rutte - premier dallo sfortunato e cacofonico cognome - regge le sorti e determina le vite di sette milioni di paffuti olandesi, e dei loro tulipani, dalla bellezza di un decennio.


Secondo leader europeo per longevità dietro la sua amicona Angela Merkel, che - nell’attuale disfida con Roma, Madrid e Parigi sugli aiuti (negati) per la crisi da Coronavirus - lo ha mandato avanti come ringhioso battistrada. A forza di abbaiare i suoi perentori divieti, il nostro Rutte è diventato il capo indiscusso dei magnanimi «frugal four» (Paesi Bassi appunto, Austria, Finlandia e Danimarca), un ruolo che calza a pennello per questo liberale ultraliberista specializzato nei tagli al welfare e nell’impulso alla scuola d’elite nel suo paese e nel diniego di ogni condivisione di peso e di responsabilità quando si tratti, in seno alla UE, di lanciare un’iniziativa finanziaria comune per pompare liquidità nelle casse di Stati membri sofferenti, come accade adesso con gli Eurobond (affondati) o con il Recovery Fund (rinviato alle calende greche).

Del resto, frugale - o meglio, tirchio e col braccino corto - l’austero Mark lo è sempre stato anche nella vita privata, non solo nella sua predicazione politica nel Vvd (il Partito del Popolo per la Libertà e la Democrazia) e nel litigioso esecutivo dell’Aia. Basti pensare che fino al 2017, ai tempi del suo secondo mandato, viveva ancora nella casa senza lussi e fronzoli che aveva sentito risuonare i suoi primi vagiti e guidava con gusto (quando non era forzatamente adagiato nell’auto blu del potere) una sconquassata ma amatissima Saab di seconda mano. Raccontano alcuni conoscenti di vecchia data che il suo più grande svago è stato a lungo quello di andare regolarmente a cena una volta alla settimana in un ristorante indonesiano a buon mercato con l’anziana mamma, da cui sembra ricevesse imperdibili dritte e saggi consigli. Non si annoiava mica lo scapolone, e single, Rutte con la genitrice. Macché... A tavola lui e lei si perdevano in aeree disquisizioni su arte, storia e musica. Già... Avreste mai immaginato che un cuore così duro avesse covato il desiderio di spendere la sua esistenza di fronte alla tastiera di un pianoforte e rimpiangesse ancora, di tanto in tanto, di non aver seguito quel suo istinto gentile cedendo alle maligne sirene dell’ambizione? Deve avere una personalità doppia, l’amico del giaguaro Rutte. Com’è possibile nutrirsi l’anima di tali delicati ristori e poi non battere ciglio di fronte alle inumane parole del suo giornalista preferito e, pare, intimo confidente? Il signor Jort Kelder ha pensato bene - davanti al dramma del Covid 19 - di esporre la sua benedicente ricetta: «Salvare gli ottantenni obesi che fumano? Molto più importante preoccuparsi dell’economia!». Davvero carina l’annotazione del sodale di Rutte... Certo, il premier non era tenuto a dissociarsi dalla farneticazione di costui, non è mica un ministro del suo governo... Ma almeno, in privato, gliene avrà dette quattro? Sarà rabbrividito anche lui? Mi sorge qualche dubbio in merito. Mi passa nella mente il refrain di Rutte che ridacchia sardonico e non riesco a liberarmi di questa immagine molesta.

https://www.iltempo.it/esteri/2020/...eurogruppo-mark-rutte-mes-coronabond-1313096/
 
Olanda, il «poliziotto cattivo» che piace alle multinazionali
Europa. Un paradiso fiscale nascosto che attira capitali per un valore pari a 5 volte il suo Pil

Anna Maria Merlo
EDIZIONE DEL11.04.2020
PUBBLICATO10.4.2020, 23:59
Nel teatro europeo, l’Olanda sta svolgendo la parte del «bad cop» ed è accusata di aver bloccato il varo dei Coronabond, cioè una garanzia comune dei debiti. Ma dietro l’Olanda c’è la Germania, oltre ad Austria, Svezia, Danimarca, Finlandia. Cioè ci sono governi – di varia tendenza politica – che per il momento restano molto prudenti sulla risposta alla crisi della pandemia.
Dai paesi che adesso puntano il dito contro l’Olanda molte multinazionali hanno trovato qui un terreno fiscale favorevole. Sfilano qui i grandi nomi mondiali, Mitsubishi, Sony, Shell, Airbus, Renault-Nissan, Ikea, Caterpiller, General Electric, Heinz, Uber, Nike, Tesla, Foot Locker.
Anche il capitale italiano non disdegna il fisco del «poliziotto cattivo»: c’è la prima filiale di STMicroelectronics, oltre a Fca (Fiat-Chrysler), e la sede olandese è stata anche scelta per la holding della futura unione Psa-Fca.
Mark Rutte, primo ministro olandese accusato dall’opposizione di sinistra di essere un «broker del grande capitale», è un liberale, arrivato al suo terzo mandato, che ha ereditato un paese in deficit e lo ha portato a rispettare i parametri di Maastricht (54% del pil di debito pubblico, deficit al 2,2%), con un tasso di disoccupazione al 3,7%.
Rutte, che è in coalizione con tre partiti democristiani (Cda, D66, Uc) e che nel passato ha anche governato con i socialdemocratici, deve fare i conti all’interno con l’estrema destra di Gert Wilders, che resta potente.
L’Olanda segue una linea pragmatica e, secondo i francesi, quando la Germania cambierà posizione, Amsterdam seguirà.
Il dibattito esiste anche in Olanda. Un ex banchiere centrale, Nout Wellink, ha messo in guardia in questi giorni: «Se il sud crolla, il nord opulento cesserà di esistere». L’Unione europea e l’euro sono stati favorevoli all’Olanda, che propone un modello di alta qualificazione e di forti infrastrutture. Amsterdam ha anche forzato la mano al destino, come hanno rivelato i Paradise Papers: ai limiti delle regole – e a volte oltrepassandole – ha manovrato per attirare capitali, non solo dai partner europei, grazie a tutti i meandri dell’ottimizzazione fiscale.
L’Olanda attira capitali per un valore che equivale a 5 volte il suo pil. Con la Brexit, molte società sono emigrate da Londra. Nella Ue non c’è l’armonizzazione fiscale e in questo delicato settore ci vuole il voto all’unanimità (cioè c’è diritto di veto). La piazza olandese è così diventata, con il Lussemburgo, l’Irlanda, Cipro, Malta, un paradiso fiscale nascosto.
Le multinazionali scelgono l’Olanda per stabilire la loro sede sociale, grazie non solo a una tassa sulle società al 25,5% (e al 19% fino a 200mila euro di utili), ma anche – e soprattutto – per i ruling, cioè accordi dietro le quinte che danno ancora più vantaggi e permettono di eludere le tasse, una cifra tra i 5 e i 10 miliardi l’anno per la Ue nel suo complesso.
Ma qualcosa si sta incrinando su questo fronte. Quattro anni fa, la Commissione ha condannato l’Olanda per i troppi favori fatti a Starbucks. Poi è stata aperta un’inchiesta che riguarda Nike, che attraverso un sistema complesso dal 2006 al 2015 ha ottenuto vantaggi che Bruxelles equipara a «aiuti illegali di stato».
Nel novembre 2018 era scoppiato lo scandalo Shell, 13 miliardi di utili non tassati, perché la compagnia petrolifera gravava i conti con le perdite delle filiali per occultare i profitti. Qualche anno fa, Rutte è stato al centro di una forte polemica politica, perché ha difeso, prima di dover fare marcia indietro, un progetto di azzeramento delle imposte sui dividendi degli azionisti. Secondo Oxfam, l’Olanda è il quarto «peggiore paradiso fiscale», dopo Isole Vergini, Bermude e Caiman.
Ma oggi ci sono «progressi» afferma l’organizzazione. È l’effetto di un voto al Parlamento europeo che un anno fa ha messo l’Olanda, assieme e Lussemburgo, Irlanda, Cipro e Malta, nella «lista nera» dei paradisi fiscali. Nel 2009, il presidente statunitense Obama aveva designato l’Olanda come il «campione dei paradisi fiscali per le multinazionali Usa», che assieme alle Bermuda e all’Irlanda, attira circa un terzo dei profitti fatti all’estero da società statunitensi.
Nel mirino di Usa e Bruxelles c’è la Cv, la commandita vennootshap, un tipo di società senza personalità giuridica, semplice partner di società estere, che permette di sfuggire alle tasse.

https://ilmanifesto.it/olanda-il-poliziotto-cattivo-che-piace-alle-multinazionali/
 
Mes, chi l’ha firmato davvero: Monti (e Berlusconi) replicano a Meloni
L'ex Primo Ministro e Commissario Europeo spiega come è andato l'iter di approvazione del Meccanismo salvastati

11 aprile 2020

Lo scontro politico sul MES non accenna a placarsi. Anzi, con il trascorrere delle ore e dei giorni si aggiungono nuovi capitoli e nuovi protagonisti a quella che potremmo considerare la querelle politica di questo inizio di primavera.

Dopo gli interventi di Matteo Salvini e Giorgia Meloni e la risposta – aspramente criticata – del Premier Conte arriva anche la risposta di Mario Monti. E, in maniera indiretta, anche del Governo Berlusconi IV. L’ex Primo Ministro e Commissario Europeo, in carica dalla fine del 2011 fino alla primavera del 2013, ha voluto dire la sua su chi ha firmato realmente il MES e quale Esecutivo fosse in carica al momento dell’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri. Una versione che conferma tutto sommato quanto affermato dall’attuale Premier Giuseppe Conte. E che viene corroborata anche da un vecchio comunicato stampa del governo Berlusconi IV.

Mario Monti: ecco chi ha approvato il MES
In un editoriale realizzato per il Corriere della Sera, l’ex Premier Monti ha voluto precisare alcuni punti sull’iter legislativo che ha portato all’approvazione del MES in Italia. Come si legge nell’articolo pubblicato dal quotidiano milanese, il MES così come oggi lo conosciamo è stato concepito dalle istituzioni europee a cavallo tra il 2010 e il 2011, quando al governo del Paese c’era Silvio Berlusconi, mentre il Ministro del Tesoro Giulio Tremonti rappresentava l’Italia in sede di Ecofin ed Eurogruppo.



“Quel governo – si legge nell’editoriale pubblicato dal Corriere della Sera – si reggeva sull’alleanza Pdl-Lega. Giorgia Meloni ne faceva parte come ministro per il Pdl, Matteo Salvini era europarlamentare della Lega. La decisione di istituire il Mes fu presa a livello Ecofin il 9-10 maggio 2010″. L’approvazione del Consiglio Europeo, dove l’Italia era rappresentata da Silvio Berlusconi, avviene invece il 25 marzo 2011.

Chi ha firmato il MES? Il comunicato del Governo Berlusconi IV
Un’ulteriore conferma sull’iter di approvazione arriva anche da un comunicato stampa divulgato dal Consiglio dei Ministri di allora. Nel corso della riunione venne approvata la “Decisione del Consiglio europeo 2011/199/UE, che modifica l’articolo 136 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea relativamente ad un meccanismo di stabilità (ESM- European Stability Mechanism) nei Paesi la cui moneta è l’euro.

Obiettivo della Decisione è far sì che tutti gli Stati dell’Eurozona possano istituire, se necessario, un meccanismo che renderà possibile affrontare situazioni di rischio per la stabilità finanziaria dell’intera area dell’euro”. Il comunicato stampa riporta la data del 3 agosto 2011.

quifinanza.it
 
Rottura Conte-destre. E ora il governo si prepara alla guerriglia
Covi di vipere. Salvini chiama il Colle: «Contro noi indegno attacco in diretta tv» Finisce un dialogo mai iniziato. Il nuovo messaggio di Mattarella

Andrea Colombo
EDIZIONE DEL12.04.2020
PUBBLICATO11.4.2020, 23:59
«Come si fa a dialogare con chi si comporta così?»: la formula che seppellisce il tentativo, già vicinissimo al fallimento, di un dialogo tra governo e opposizione sulla gestione della crisi è questa. Sono le parole che pronuncia Salvini, al telefono con il capo dello Stato, dopo uno sfogo che va dall’attacco di Conte contro di lui e Giorgia Meloni nella conferenza stampa di venerdì sera («Una cosa indegna di uno Stato democratico») alla chiusura del governo sugli emendamenti dell’opposizione al dl Cura Italia, «Non è stato accolto niente».
DI TREGUA non si poteva già parlare. Ora è guerra aperta, in Parlamento e fuori. Non ci vorrà molto, prevedono sul Colle come in ogni sede politica, perché si arrivi a uno scontro senza esclusione di colpi, con l’opposizione che accuserà il governo di aver provocato decine di migliaia di morti e la maggioranza che replicherà denunciando la strage degli anziani nelle Rsa lombarde.
La stessa decisione della Regione Lombardia, seguita dal Piemonte, di emanare un’ordinanza per mantenere chiuse, a differenza di quanto aveva detto il premier, librerie e cartolibrerie viene interpretato come ennesimo segnale dello scontro campale che si sta preparando.
SALVINI CHIEDE una sorta di “diritto di replica”, sempre a reti unificate. Richiesta che ovviamente non riguarda il Quirinale e finirà invece in commissione di Vigilanza Rai. Il presidente della stessa, il forzista Barachini, brucia i tempi e senza neppure consultare la commissione scrive alle reti Rai con la raccomandazione di «assicurare un proporzionato diritto di replica». Il vice De Nicola, 5S, lo rintuzza subito: «Non dovrebbe inviare lettere senza sentire l’opinione di tutte le forze politiche, tanto più se arriva a indicare un diritto di replica alle dichiarazioni del premier». E anche questo è un segnale del rapidissimo degenerare del clima politico in piena emergenza.
MATTARELLA NON SI PRONUNCIA su una materia non di sua competenza. Può solo assicurare che farà il possibile per facilitare ogni tentativo di dialogo ed è in effetti molto probabile che abbia già consigliato a Conte di evitare in futuro errori simili. Ma senza esagerare nell’allarme perché, per quanto fuori luogo sia stato l’affondo televisivo di Conte, Mattarella sa bene che allo scontro frontale si sarebbe arrivati comunque.
Non a caso, nel breve messaggio televisivo di auguri pasquali agli italiani, evita ogni accenno alla necessità di coesione nazionale, consapevole che in questo momento sarebbe stato preso per una sconfessione del premier. Mattarella si concentra invece sulla necessità di rispettare le norme di distanziamento, «I sacrifici che stiamo facendo stanno producendo i risultati sperati e non possiamo fermarci proprio adesso». E sul tentativo di far sentire agli italiani la vicinanza e il riconoscimento dei loro sforzi: «Comprendo bene il senso di privazione che questo produce. So che molti italiani trascorreranno il giorno di Pasqua in solitudine. Sarà così anche per me».
CERTO A MATTARELLA l’intemerata di Conte non è piaciuta ed è quanto di più lontano dal suo stile. Ma se qualcosa lo ha preoccupato, nella conferenza stampa di venerdì, sono soprattutto i toni adoperati parlando del Mes e della richiesta di eurobond. Preoccupazione condivisa dal Pd e da Gualtieri, che avrebbero scelto tutt’altra linea. Riconoscere i passi fatti da Bruxelles, segnalare con forza il segnale lanciato con la nuova linea di credito del Mes, mettere in forse il ricorso a quel credito ma senza bruciarsi i ponti alle spalle, indicare, come suggerisce Delrio, la differenza tra le istituzioni sovranazionali, commissione e Bce, e le resistenze degli Stati: tutto questo avrebbe permesso a Conte di continuare nella battaglia per gli eurobond senza lasciare alla destra una sorta di verdetto, giocoforza negativo, su ogni nuovo passo.
Se anche il 23 aprile Conte otterrà un nuovo segnale sugli eurobond non sarà certo il varo immediato del Fondo. L’opposizione avrà quindi gioco facile nell’accusare comunque Conte di resa.
MA CONTE, PRESSATO DAI 5S che di Mes non intendono sentir parlare, non può accogliere quei suggerimenti prudenti, perché gli sfuggirebbe di mano la sua maggioranza e verrebbe meno il suo stesso ruolo di unico garante possibile dell’accordo Pd-5S. Quindi ha deciso di giocare il tutto per tutto scommettendo sulla vittoria secca. Ma un problema resterebbe comunque aperto. Anche nell’ipotesi migliore, i fondi non sarebbero certo erogati immediatamente. Mentre all’Italia servono subito.

https://ilmanifesto.it/rottura-conte-destre-e-ora-il-governo-si-prepara-alla-guerriglia/
 
Le menzogne, il censore e il premier
James Bond. Conte aveva, e ha, tutto il diritto di replicare alle falsità che inondano i media ad ogni ora del giorno. In particolare le ultime, proprio sul Mes, al centro del confronto-scontro in sede europea e in Italia

Norma Rangeri
EDIZIONE DEL12.04.2020
PUBBLICATO11.4.2020, 23:59
Qualche domanda: quante volte il premier Conte è stato attaccato in diretta tv, e sul circuito mediatico delle opposizioni, sul piano personale? E senza alcun contraddittorio? La leader che guida Fratelli d’Italia non ha forse accusato Conte di essere addirittura un “criminale”, con nessun conduttore o direttore di tg che replicasse “no, questo non si può dire in diretta tv”?
Quando mai Mentana si è indignato per le parole pesanti indirizzate al premier? E non è da censori affermare – come lui ha detto – che non avrebbe mandato in onda le accuse di Conte a Salvini e Meloni se avesse saputo?
Nemmeno gli fosse arrivata una cassetta registrata di Berlusconi come ai vecchi tempi, quando l’appello al popolo, via Vhs, veniva trasmesso da Arcore ai prediletti tg di famiglia e naturalmente a quelli della Rai plaudente. La famosa Rainvest a reti unificate.
Conte aveva, e ha, tutto il diritto di replicare alle falsità che inondano i media ad ogni ora del giorno. In particolare le ultime, proprio sul Mes, al centro del confronto-scontro in sede europea e in Italia. Il diritto e il dovere di rispondere alle sonore bugie che abbeverano l’opinione pubblica grazie a una informazione molto lacunosa, se non subalterna e connivente. Il dovere di ricordare che il Mes non lo riguarda.
E infatti la Ue ha fatto presente erga omnes che l’accordo sul salva-stati passò nel 2011 durante il governo Berlusconi IV, con Meloni giovane ministra. La stessa persona che oggi vuol giocare il ruolo della vittima insieme a Salvini, proprio lui che ha usato e abusato del ruolo istituzionale di ministro dell’interno e che ora, senza pudore, si appella addirittura al Capo dello Stato, dopo aver inondato di fango e fake news Conte e il suo governo.
Le opposizioni d’altronde, giocano le loro carte. Noi che conosciamo bene il ruolo dell’opposizione, e lo teniamo in gran conto, non abbiamo mai usato le menzogne, gli insulti personali. Le destre di oggi ne fanno invece pratica quotidiana. E alla disperata, perché sanno di essere ininfluenti in questa crisi.
E alla disperata, perché sanno di essere ininfluenti in questa crisi. Oltretutto quello che sta emergendo nelle Regioni sotto la loro guida conferma responsabilità e colpevoli incapacità nell’emergenza della lotta alla pandemia.
Alzano il tiro perché ogni giorno che passa si solleva il velo su una condotta al centro di accertamenti giudiziari. Il direttore del Pio Albergo Trivulzio, indagato per epidemia e omicidio colposo, dipende dal governo di destra lombardo. E gettare la palla fuori campo serve a distrarre gli italiani dalla tragedia che stanno vivendo migliaia di famiglie per aver perso i loro cari a causa di scelte sanitarie molto pericolose per la vita dei malati.
Al contrario, chi appoggia direttamente o indirettamente questo governo, dovrebbe apprezzare un presidente del Consiglio che parla in modo chiaro, diretto, che non nasconde la realtà ai cittadini, che non si piega alle pressioni confindustriali, che non fa da sponda alle forze politiche che lo sostengono, che soprattutto non propala bufale. Forse avrebbe dovuto ricostruire meglio il caso Mes, perché non tutti sanno, anzi, ma una risposta agli italiani era necessaria.
La critica che invece va mossa riguarda proprio la coalizione di governo. Perché appare chiaro che la tragicità della situazione che attraversa ogni cellula della vita sociale, non può essere cancellata da un “vogliamoci bene”, che continua a nascondere la polvere sotto il tappeto. Tra Pd e M5S riaffiorano rivalità, visioni diverse, contrapposizioni capaci di minare il fragile terreno sul quale poggia la coalizione.
Rivedendo Conte in tv emergeva un certo nervosismo, solo in parte dovuto allo stress del momento. Nato contro i pieni poteri reclamati dalle destre, costruito in difesa di un clima democratico messo in crisi dall’odio, dal razzismo, dalla xenofobia, sempre di più questa maggioranza deve dimostrare di essere all’altezza di una proposta politica in grado di avviare la ricostruzione del paese, sgovernato da un sistema che ne ha fatto il regno europeo delle diseguaglianze.
Perché quel cambiamento verso uno stato sociale e di diritto (per i lavoratori come per gli immigrati e per i carcerati), dentro una battaglia europea cruciale e inimmaginabile senza la micidiale opera distruttrice del virus, non ammette rinvii, né concederà repliche.

https://ilmanifesto.it/le-menzogne-il-censore-e-il-premier/
 
L’epidemiologo Snowden: “Questa pandemia specchio di una globalizzazione letale”
L'intervista. Storico delle epidemie all'università di Yale: "Questa malattia è lo specchio dei nostri comportamenti: distruzione dell'ambiente, boom demografico, velocità degli spostamenti, disuguaglianze. Spero che al termine non ci sia un'amnesia sui motivi profondi del contagio. Serve l'assistenza sanitaria universale"

Stella Levantesi
EDIZIONE DEL09.04.2020
PUBBLICATO8.4.2020, 23:59
Può la storia delle epidemie aiutarci a comprendere la pandemia di coronavirus? Cosa abbiamo sbagliato in passato e cosa dobbiamo imparare a non sbagliare più? In che modo il Covid-19 ha cambiato il nostro rapporto con la morte? Ne parliamo con Frank Snowden, storico americano delle epidemie e della medicina, esperto di storia italiana moderna e professore all’Università di Yale, che in questo periodo vive in Italia.

Circostanze di emergenza come questa pandemia hanno, in alcuni casi, trasformato la guerra al virus in una guerra alla democrazia. Le emergenze vengono sfruttate per ottenere un’estensione dei poteri e un controllo sull’economia. In casi estremi con pieni poteri che portano all’ascesa di regimi autoritari come in Ungheria. È già successo in passato? Le pandemie hanno finito col “legittimare” derive autoritarie?

Le pandemie hanno il potenziale di rafforzare l’autoritarismo. Quello che sta succedendo con Viktor Orbán in Ungheria ma anche in Polonia, sono due esempi molto chiari di come l’emergenza sia una legittimazione di tendenze autoritarie di estrema destra per distruggere il sistema democratico e istituire un governo nazionalista e pseudo populista. Quindi è un pericolo. Ma questo non è un processo inevitabile.

Se si guarda all’ultima grande pandemia, l’influenza spagnola del 1918, sono state prese misure come il divieto di assembramenti – una sorta di precursore dell’auto isolamento – niente manifestazioni o parate, e i cittadini dovevano essere monitorati dallo Stato. Eppure, a quel tempo, non credo che nessuno avrebbe detto che sarebbero state permanenti e il risultato dell’influenza spagnola non è una dittatura.

Nell’Europa dell’Est, per esempio, il colera negli anni Trenta del diciannovesimo secolo ha consentito l’imposizione di misure di repressione draconiane, quasi medioevali. E lì fu qualcosa di duraturo.

Quindi credo sia possibile per gli autoritarismi sfruttare il potenziale emergenziale creato dalle malattie pandemiche. Ma l’effetto può anche essere il contrario.

La fine della schiavitù nelle piantagioni ad Haiti, per esempio, fu il risultato della distruzione dell’armata di Napoleone a causa della febbre gialla. E quello fu liberatorio: la prima Repubblica nera libera, la prima grande ribellione schiavista della storia, in parte radicata nella differenza di immunità e mortalità tra gli europei e gli africani, le truppe di Napoleone, gli europei, non avevano l’immunità di gregge alla febbre gialla, mentre gli schiavi africani sì.

Quindi direi che anche la libertà può essere conseguenza dalla pandemia. Il futuro non è predeterminato. Quanto vigili e reattivi saranno i cittadini farà un’enorme, decisiva differenza.

Quindi affrontare una pandemia non implica necessariamente l’autoritarismo?

Che le democrazie non siano adatte ad affrontare le pandemie è categoricamente falso. Direi anzi che le democrazie sono più adatte ad ottenere il sostegno popolare ed istituire razionali politiche sanitarie pubbliche perché permettono il libero flusso di informazioni, e la salute pubblica moderna dipende in realtà dalla libera informazione.

Spero che misure come quelle applicate in Corea del Sud rappresentino effettivamente un modello di ciò che una governance democratica – non sto cercando di promuovere la Corea del Sud, ma sto solo dicendo che è un governo eletto – può fare senza poteri autoritari di emergenza: praticare test diagnostici accurati, distanziamento sociale, quarantena e rintracciamento del contagio. Queste sono le componenti essenziali di ciò che deve essere fatto in questo momento.

Non abbiamo altre armi, non c’è nessun vaccino, nessuna cura. Non credo sia vera l’idea che abbiamo bisogno di un dittatore per affrontare la crisi.

In un’intervista al New Yorker lei ha detto “le epidemie sono una categoria di malattie che fanno da specchio agli esseri umani e mostrano chi siamo veramente”. E poi ha aggiunto che le epidemie riflettono il nostro rapporto con l’ambiente, sia quello che abbiamo costruito che l’ambiente naturale. Questo vale anche per la pandemia di coronavirus? Le epidemie sono lo specchio della vulnerabilità umana?

Credo che questo sia estremamente vero per il coronavirus; questa è la prima grande epidemia della globalizzazione. E credo che tutte le società creino le proprie vulnerabilità.

Permettimi di fare un paragone con un’altra malattia che è stata la più temuta del suo secolo, il colera nel diciannovesimo secolo. Era una malattia dell’industrializzazione e quindi dell’urbanizzazione dilagante – cioè l’ambiente costruito in modo catastrofico perché masse di persone si riversavano nelle grandi città in tutto il mondo industriale, dove non esisteva alcuna preparazione sanitaria o abitativa.

In città come Napoli o Parigi c’erano baraccopoli – nove, dieci persone in una stanzetta – in cui si viveva senza alcun sistema igienico-sanitario, né fognature o acqua potabile. E quindi una malattia che si trasmetteva per via orale-fecale, adattata a quell’ambiente, ne traeva il massimo vantaggio.

Il tifo, e il colera asiatico, direi, sono malattie sintonizzate sulle condizioni di industrializzazione e rappresentano, in questo senso, uno degli specchi della globalizzazione.

Con il coronavirus, ci sono almeno tre dimensioni che mostrano come la Covid-19 sia lo specchio di ciò che siamo come civiltà.

La prima è che stiamo diventando quasi 8 miliardi di persone in tutto il mondo.

Poi abbiamo il mito per cui si può avere una crescita economica e uno sviluppo infinito anche se le risorse del pianeta sono limitate, il che è una contraddizione intrinseca. Eppure abbiamo costruito la nostra società su questo mito, pensando che le due cose si possano in qualche modo conciliare. Quindi c’è un problema.

Inoltre, questo trasforma il nostro rapporto con l’ambiente e in particolare con il mondo animale. Abbiamo dichiarato guerra all’ambiente e distruggiamo l’habitat degli animali – questa è l’era dello sradicamento e dell’estinzione delle specie.

Quello che succede è che gli esseri umani entrano in contatto con gli animali con una frequenza e in modi che non sono mai accaduti in passato. E possiamo ora indicare quali sono le malattie che lo dimostrano: l’influenza aviaria per definizione, così come la MERS e la SARS e l’Ebola. E ora abbiamo il coronavirus.

Direi che questo schema non è casuale. Vuol dire che viviamo in un’epoca di ripetuti spillover. E in particolare sembra che siamo molto vulnerabili a quei virus per i quali i pipistrelli sono un ospite naturale.

Un’altra caratteristica della globalizzazione è che ora abbiamo creato un mondo di grandi città, di megalopoli collegate da un rapido trasporto aereo, il che significa che uno spillover che accade, scelgo un posto a caso, a Giacarta al mattino…lo stesso virus sarebbe presente a Los Angeles e a Londra la sera.

Quindi direi che il coronavirus sta sfruttando canali di vulnerabilità che noi stessi abbiamo creato.

Direi anche che questa pandemia è la quintessenza dell’epidemia di una società globalizzata. Globalizzazione significa distruzione dell’ambiente, il mito di una crescita economica infinita, un’enorme crescita demografica, grandi città e trasporti aerei rapidi; è tutto collegato.

E la pandemia nei paesi in via di sviluppo? Cosa ci mostra lo specchio?

Questa è una mia grande preoccupazione. Al direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità è stato chiesto: “Cosa ti tiene sveglio la notte durante questa crisi?”. E lui ha risposto, “quello che potrebbe succedere se questo virus si facesse strada nelle nazioni con poche risorse”.

Sono preoccupato ora che, mentre parliamo, il virus si sta diffondendo in diversi paesi dell’Africa, America Latina ed Asia. Temo che possa causare sofferenze inimmaginabili in quelle zone.

Il distanziamento sociale e lavarsi le mani sono alla base della nostra risposta. Certamente qui in Italia è proprio questo che le persone sono chiamate a fare.

Ma cosa significa, per esempio, in una favela a Rio de Janeiro o in una township in Sudafrica dove ci sono tante persone che vivono in una stanza? In un condominio di case popolari, poi, il distanziamento sociale è una presa in giro. E dove non si dispone nemmeno di servizi igienici? Lavarsi le mani non significa nulla.

Così voglio delineare quella che penso sia un’altra vulnerabilità che la nostra società della globalizzazione riflette: la disuguaglianza globale. Anche in un paese ricco come gli Stati Uniti questa malattia può affliggere tutti, ma in modo preferenziale e sproporzionato colpirà i poveri, le persone più vulnerabili del paese.

Questa è la verità dell’era della globalizzazione: ciò che colpisce i più deboli tra noi colpisce tutti e ovunque. Quindi penso che questo sia quello che stiamo per vedere nello specchio. E non è un bel riflesso.

È chiaro che abbiamo fatto degli errori. Continueremo a farli come prima?

In effetti la preoccupazione ora è che quando questo passerà, non faremo nulla, se non radicarci in una dimensione di amnesia.

La speranza è che, invece, ci renderemo conto che siamo profondamente vulnerabili, che è inevitabile che altre sfide microbiche come questa si ripresentino.

Ogni ambientalista può dire fin da ora che questo è inevitabile a causa dei rapporti che abbiamo creato con la natura: lo spillover si ripresenterà ancora e ancora. Donald Trump ha sollevato la domanda più critica e inquietante di questa epidemia: “Chi poteva saperlo?”. Io direi che tutti potevano saperlo.

Già nel 1997 con l’influenza aviaria gli epidemiologi hanno detto che la grande sfida per il mondo è la sfida dei virus polmonari. Siamo più vulnerabili e a questi dobbiamo prepararci. Siamo poi stati totalmente impreparati all’Ebola.

Anthony Fauci nel 2005 ha testimoniato al Congresso americano dicendo: “Sse si parla con qualcuno che vive nei Caraibi, si può dire a quella persona che la scienza del clima prevede inevitabilmente che gli uragani colpiranno i Caraibi e che è fondamentale essere preparati ad affrontarli. La scienza non può dire quando colpiranno o quanto saranno forti, ma stanno arrivando e non c’è via di scampo. Allo stesso modo, possiamo dire al mondo che sta arrivando una grande pandemia virale, in particolare una pandemia polmonare. Non posso dirvi quando o quanto sarà forte, se sarà peggio dell’influenza spagnola o più debole. Ma è inevitabile che ciò accada. E quindi dobbiamo prepararci o avremo una pandemia”.

Beh, non ci siamo preparati. Non solo negli Stati uniti ma anche in Italia e in altri paesi.

L’Italia non è esente da questo. Gli anni prima di questa pandemia sono stati caratterizzati da tagli alla ricerca scientifica e alle spese per il sistema sanitario. Per fortuna l’Italia ha un sistema sanitario e ospedaliero pubblico tra i migliori al mondo. Anche se il punto è che comunque mancavano una search capacity e attrezzature di protezione per gli operatori sanitari.

Ma gli Stati Uniti ne soffriranno ancora di più perché non hanno quello che ha l’Italia: un sistema sanitario a disposizione di tutti.

Uno dei modi essenziali per prepararsi al futuro è garantire che tutti sul pianeta abbiano accesso alle cure mediche gratuite, perché se qualcuno si ammala di un virus polmonare, questo si ripercuoterà su tutti nel mondo. E quindi, se qualcuno deve essere al sicuro, tutti devono essere coperti dall’assistenza sanitaria.

Nel suo libro “Epidemics and Society” lei parla del successo sardo nell’eradicazione della malaria nella prima metà del ‘900 per illustrare l’importanza dell’assistenza internazionale, che all’epoca coinvolse gli Stati Uniti. Di conseguenza, per sopravvivere alla sfida di un’epidemia, l’umanità deve adottare una prospettiva internazionalista? Lei cosa ne pensa?

Assolutamente sì. Penso che uno degli aspetti più preoccupanti di questa epidemia sia che il “muro di Trump” diventi la metafora dell’epoca in cui viviamo, la nostra fiducia nei muri, nei confini e nelle barriere nazionali per “proteggerci”. Questo sottrae risorse alle misure che dovrebbero in realtà essere prese e una cosa che sappiamo è che i microbi hanno zero rispetto per i confini nazionali e i confini politici.

Credo ci sia stata una qualche misura efficace nei travel ban messi in atto temporaneamente. La speranza era che i paesi che avevano un divieto di viaggio in vigore guadagnassero qualche settimana di tempo per prepararsi. Ora, molti paesi hanno sprecato quel tempo, hanno messo in atto i divieti e poi non hanno fatto nulla.

Il mio paese, gli Stati Uniti, è l’esempio perfetto di come si è sprecato tutto quel tempo…L’Unione Europea non è stata in grado di sviluppare e adottare piani di preparazione che potessero mettere in atto una unica risposta continentale alla malattia.

E quindi ogni paese dell’Unione ha adottato misure senza alcun coordinamento. E l’opinione pubblica è rimasta molto confusa non sapendo quale fosse l’approccio migliore.

Questo è un ambiente in cui fioriscono miti, paranoie e teorie del complotto. Un’epidemia di disinformazione ha alimentato la pandemia biologica e l’ha aiutata a proliferare.

Durante la terza pandemia di peste in Cina tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo serpeggiava una tendenza al razzismo e la convinzione che l’epidemia non avrebbe oltrepassato i confini cinesi, l’illusione dell’“immunità del bianco”. Sembra che questo elemento fosse presente anche all’inizio dell’epidemia di coronavirus in Cina, quando il virus era ancora limitato al territorio cinese. Pensa che questo possa essere uno dei motivi che ha portato l’Occidente a sottovalutare il rischio legato a questa epidemia? Una sorta di fallacia psicologica, l’illusione che l’epidemia di coronavirus non si sarebbe diffusa al di fuori della Cina, che non avrebbe colpito l’Occidente?

Credo assolutamente che sia vero. Hai menzionato la terza pandemia di peste e tra l’altro il razzismo non era solo limitato alla Cina. È andato avanti mentre l’epidemia si diffondeva. L’abbiamo visto in India e anche in alcuni luoghi del mondo industriale come San Francisco, dove la terza pandemia di peste all’inizio del ventesimo secolo ha visto dilagare la xenofobia; era la “malattia di Chinatown”. E questo oggi dove ci porta? C’è la riluttanza di tanti leader politici a imparare le lezioni del passato.

Mi ha stupito il fatto che il Partito Repubblicano ha insistito su questo virus come il “virus cinese”… che si appella alla xenofobia come un modo per affrontare questa crisi. E credo che questo venga fatto consapevolmente… è una tentazione perenne, che ha fatto parte della storia di molte epidemie: le autorità hanno spesso nascosto la presenza di malattie perché possono rendere più problematico governare. Possono creare grandi difficoltà nell’economia e si vede che anche all’inizio di questa pandemia il presidente Trump aveva la tendenza a dire: “Oh, questa non è altro che una comune influenza”. Ha risposto in modo sbagliato. La salute pubblica dipende dalla verità.

Quale sarebbe stata la risposta giusta?

Non ho un piano di preparazione ufficiale, ma ho alcuni principi che ritengo essenziali e che sono alla base della salute pubblica moderna. Non sono miei ma della comunità scientifica internazionale.

La salute pubblica come disciplina scientifica dipende dalla scienza, che dipende dalla verità e dal libero scambio di informazioni. Vale a dire che nessuna politica che sia efficace e scientifica può essere adottata dove non c’è un’informazione adeguata e dove le persone non vengono considerate come parte di questa risposta.

E così sappiamo che mentire al pubblico è distruttivo per le politiche di salute pubblica. E credo che la scienza medica sia una parte essenziale della nostra protezione contro questa malattia.

Non posso dire tutto quello che Donald Trump avrebbe dovuto fare, ma posso dirti che quando ha mentito al pubblico stava facendo un passo profondamente in contrasto con i principi di difesa scientifica del paese e del mondo contro questa pandemia.

Credo che nessuno vorrebbe studiare come ho fatto io per 40 anni la storia delle pandemie, se l’unica cosa che si può dire alla fine di quel lavoro è che si tratta solo di tragedia e distruzione, che non c’è speranza. Credo che a questo punto sarei già impazzito.

Penso che le epidemie, come ho detto, sono uno specchio dell’uomo, ma non sono solo il lato negativo della natura umana, sono anche il lato positivo.

E possiamo ritrovare questo aspetto nella salute pubblica, possiamo ritrovarlo nel sacrificio dei medici e degli operatori sanitari e dei lavoratori dei servizi di prima necessità che ci permettono di sopravvivere a questa sfida.

C’è molto per cui essere grati. La salute pubblica si è evoluta dopo la peste bubbonica. Le misure ideate a Firenze e Venezia durante il Rinascimento sono state l’inizio della sanità pubblica. Stiamo ancora facendo alcune di quelle stesse cose.

In certi casi, come per esempio il vaiolo, una volta contratta la malattia infettiva, se si sopravvive, il sistema diventa immune. Sembra che con Covid-19, non ci sia ancora una certezza scientifica in questo senso. Se sopravvivere alla malattia non desse un’immunità naturale, potrebbe essere anche più complicato sviluppare un vaccino?

Sì, se si è suscettibili dopo la guarigione dalla malattia deve ancora essere dimostrato e studiato. Se fosse vero, avrebbe profonde implicazioni. Una delle caratteristiche che hanno reso più facile sviluppare un vaccino contro il vaiolo era che ciò che si doveva fare era incoraggiare l’organismo a fare qualcosa che la natura aveva già fatto, cioè creare una risposta immunitaria che già esisteva.

Un’altra caratteristica dell’eradicazione del vaiolo era che non c’era nessun animale ospite. E così, se si fosse interrotta la trasmissione della malattia, si poteva essere certi che non sarebbe ritornata per effetto di uno spillover.

Ora, per il coronavirus è molto diverso. Ma c’è anche un’altra caratteristica e questo ci riporta a indagare sul sistema immunitario dei pipistrelli.

C’è un aspetto negativo e uno positivo.

Il positivo è che i pipistrelli vivono molto felicemente con tantissimi coronavirus che non abbiamo ancora classificato, sono completamente sconosciuti, e quindi se si potesse scoprire il segreto del loro sistema immunitario, ciò potrebbe avere implicazioni potenzialmente profonde per lo sviluppo dell’immunità umana a quegli stessi virus.

Il negativo, però, è che ci sono tutti questi coronavirus e ne abbiamo incontrati solo pochi e nessuno ha la minima idea di quello che verrà. E questa è un’altra caratteristica che è preoccupante per uno spillover zoonotico, che è come tutto è iniziato.

Un’altra conseguenza di questa pandemia è l’impatto sull’economia. C’è un modo per proteggere l’economia? Oppure è una conseguenza inevitabile che questa soffra quando le pandemie raggiungono il punto di crisi?

Non ho un modello di come dovrebbe essere un’economia post coronavirus, ma ho alcune premesse su cui mi sembra che un’economia di questo tipo dovrebbe basarsi.

La prima è il riconoscimento che questa pandemia è un game changer, che il mondo non sarà più lo stesso dopo questo evento perché è già chiaro che le sue conseguenze economiche sono molto più profonde di quanto chiunque si aspettasse.

Molti degli spazi di lavoro o dei posti di lavoro che esistevano non torneranno come prima e questo significa disoccupazione su larga scala che dovrà essere affrontata, e significa anche che l’economia non può semplicemente tornare al business as usual. Einstein ha detto che uno dei segni della stupidità è la tendenza a continuare a fare la stessa cosa e a sperare in un risultato migliore.

Dobbiamo mettere da parte il mito di un profitto costante e a breve termine, la visione frenetica e permanente della crescita che non è sostenibile.

Le malattie non affliggono le società in modo caotico, sono eventi ordinati – lo scrive nel suo libro. Quindi, poiché sono eventi ordinati, possiamo usare questo aspetto a nostro vantaggio?

Le malattie non colpiscono le società in modo casuale, ma coinvolgono delle contingenze. Non voglio dire che sono totalmente strutturate, ma seguono una logica intrinseca.

Il setting è molto importante. Quindi, se ho ragione nel dire che le malattie sfruttano questi canali o percorsi stabiliti, visibilmente evidenti, mentre si diffondono nel mondo – questo ha un lato positivo.

Perché se accettiamo il fatto che siamo noi stessi i responsabili, ci guardiamo allo specchio e riconosciamo che siamo stati noi stessi a creare quei percorsi, quelle vulnerabilità, e a costruirle nelle nostre società, significa anche che sempre noi stessi possiamo cambiarle e possiamo alterare quel rapporto con il regno animale. Possiamo fare qualcosa al riguardo e questo proteggerà il pianeta e anche la nostra salute.

Alcuni colleghi sostengono che se potessimo cambiare il nostro rapporto con il regno animale, questo avrebbe un impatto duraturo e sostenibile sulla nostra vulnerabilità alle malattie infettive. C’è una componente ambientale molto importante nella soluzione al nostro problema.

La mia prossima domanda è su un piano molto diverso. Era vero con la peste e purtroppo rimane vero per la Covid-19, che le persone molto spesso muoiono da sole, senza funerali adeguati e a volte senza sepoltura. Come hanno influito le epidemie sul nostro rapporto con la morte?

È una questione filosofica, morale, antropologica e devo dire che potrebbe essere un progetto di ricerca a sé stante che ritengo enormemente interessante e importante. Vorrei poter rispondere alla tua domanda ma so che sto per deluderti. Tutto quello che posso fare è rafforzare la domanda dicendo che è vero che questa è una delle caratteristiche della peste e che la gente si preoccupava enormemente della propria mortalità. E in particolare, questo ha sollevato la questione della morte improvvisa.

Questo significa affrontare domande spirituali: se sei religioso, qual è il tuo rapporto con un Dio che è onnisciente e onnipotente eppure permetterebbe il massacro dei suoi figli? Credo che questo ponesse al centro la questione della fede e del dubbio sulla fede. Nei dipinti della peste, nell’iconografia, c’è il cranio e le ossa incrociate, la realtà della nostra esistenza è in realtà la morte, o la clessidra con le sabbie che si esauriscono, cioè la nostra morte.

Penso che questa domanda possa avere anche un aspetto sociale. Questa epidemia ha portato il concetto di morte nelle nostre vite in un modo in cui prima non era presente. Quando dico “le nostre vite”, ovviamente parlo dell’Occidente. Le nostre società, rispetto ai decenni precedenti, sono entrate sempre meno in contatto con la mortalità e la morte. Naturalmente questo non è assolutamente vero per molte regioni del mondo che oggi sono afflitte da guerre, conflitti, carestie e catastrofi climatiche. In un certo senso invece le nostre “società di conforto” ci hanno allontanato dalla morte. Quindi credo che una parte del motivo per cui ho posto questa domanda sia perché in Italia ora si parla molto di morte in un modo a cui non siamo abituati.

Sono stato molto rattristato dalla scomparsa del grande storico della morte, il francese Philippe Ariès, che ha scritto proprio su questi temi.

Ricordo un suo saggio che credo si chiamasse “Pornografia della morte”. La sua riflessione era di fare della pornografia una sorta di metafora, perché quando la morale vittoriana ha soppresso la sessualità in modo che non potesse trovare, diciamo, normali sfoghi salutari, non sarebbe sparita, ma esplosa in modi pornografici malsani.

Egli ha sostenuto che se si prende questo come modello, lo stesso vale per la mortalità e la morte e che ciò che abbiamo fatto nel mondo moderno è sopprimere la morte in modo da non affrontarla mai, come i vittoriani non hanno mai affrontato la loro sessualità.

E il risultato è che non sappiamo come elaborare il lutto perché la morte avviene all’interno di qualche istituzione e l’istituzione la riordina e se ne prende cura; è l’industria della morte.

La morte non è più personale. E se c’è una “professione della morte” che la riordina, non ci confrontiamo direttamente con la sua realtà e con il suo significato. Credo profondamente che Ariès abbia ragione. Ma non posso sostituire Ariès. E vorrei avere una risposta migliore.

So che è impossibile fare una vera e propria previsione di quanto tempo durerà la pandemia, ma mi chiedo se la storia può aiutarci in questo senso, se possiamo avere un’idea in termini di tempo e di cosa aspettarci nei prossimi mesi.

Non posso fare una previsione precisa. Questo è un punto cruciale da tenere presente perché si tratta di una nuova malattia che è nota all’uomo solo da dicembre.

Di conseguenza, nessuno ne sa ancora molto, e uno dei suoi misteri è ancora la durata del suo assedio su una comunità. Chiaramente non è come l’influenza spagnola che passava sulle comunità nel giro di poche settimane; e all’altro estremo è improbabile che rimanga all’interno di un territorio per anni come la peste bubbonica a volte ha fatto.

Per questo motivo il futuro è molto complesso. Non è chiaro, ad esempio, se Covid-19 diventerà una malattia endemica che ci accompagnerà per molto tempo; se ci sarà una ricaduta una volta che le comunità usciranno dall’isolamento e torneranno al lavoro e ad una vita più normale, e se coloro che sono stati infettati avranno l’immunità.

Immagino che il pericolo di una ricaduta impedirà alle autorità di permettere alla vita di tornare a una qualche versione “normale” per mesi.

Sospetto che il ritmo del cambiamento sarà cauto, poiché sarà necessario vedere se a un tale progressivo allentamento delle regole, seguirà una nuova ondata della malattia.

Credo che il ritorno alla “normalità” sarà quindi lento e graduale, e che alcuni cambiamenti saranno probabilmente duraturi, almeno fino a quando non ci sarà un vaccino efficace, che sarebbe una svolta.

Questa non è una previsione ma un’ipotesi. Il punto principale è che penso che tutti debbano essere consapevoli che questa pandemia è una questione molto seria e che la nostra guarigione non avverrà all’improvviso, tutto in una volta, e nemmeno molto presto. È anche realistico immaginare che alcuni dei cambiamenti nella nostra vita dureranno più a lungo.

https://ilmanifesto.it/lepidemiolog...etale-serve-lassistenza-sanitaria-universale/
 
Rino Formica: «La globalizzazione era un’illusione. Serve un pensiero nuovo»
Intervista all'ex ministro . Il socialista: la provvidenza del mercato non ci ha salvato. Si dovrà ripartire per blocchi solidali. L’Europa? Forse non tutta. La Germania dimostri che l’autoritarismo non serve al riordino globale. Sento dire: ‘rinazionalizziamo tutto’. Ma cosa? Dobbiamo ripartire dalla Costituente, da La Pira e da Basso

Daniela Preziosi
EDIZIONE DEL14.04.2020
PUBBLICATO13.4.2020, 23:59
AGGIORNATO14.4.2020, 12:01
«Il problema sarà il dopo» e quando dice «dopo» un socialista doc, uno che di «dopo» ne ha vissuti molti, e tutti vedendoli prima con il dono dell’analisi raffinata cui segue la sentenza spietata (celebri i suoi «la politica è sangue e merda», il Psi del ‘91 «una corte di nani e ballerine»), si capisce che non sta parlando delle risse sulla fine del lockdown né degli stili di vita dei cittadini – anche se, concede, «ci sarà qualche modifica dei comportamenti sociali, come dopo le guerre. In Italia nel ‘46 si aprirono le balere. Nel ‘21 forse non si chiuderanno le discoteche». Ma per Rino Formica – classe ‘27, già ministro delle finanze nella Prima Repubblica – il cimento del «dopo» è cruciale perché «si è rotto l’ordine istituzionale, politico economico e sociale, sia nelle dimensioni nazionali e sovranazionali che in quelle globali».
IL RAGIONAMENTO PARTE da un esempio. «Quando si costruirono i primi grattacieli si fecero gli ascensori ma nessuno pensò di abolire le scale. Nessuno ovviamente le prendeva per arrivare al 50esimo piano, ma chi progettava le inseriva comunque. Per sicurezza, nel caso in cui gli ascensori si bloccassero». «Pensiamo alla nostra sanità: anche nei sistemi funzionanti non era prevista la riserva disponibile per il primo assorbimento di un’evenienza nuova. Infatti si è verificato un degrado curativo di tutte le altre malattie. Negli ospedali sono stati dedicati al virus reparti destinati ad altro, in un sistema in cui dovevi prenotarti mesi prima per avere un’analisi, un intervento. Non c’era una riserva per il rischio».
«COSÌ È ANDATA anche con la globalizzazione, un’innovazione politica che non ha trovato la preveggenza delle classi dirigenti. Non hanno valutato i rischi. L’errore è stato credere che dall’oggi al domani il mondo diventasse unito. Ma non poteva. La globalizzazione totale è una prospettiva più lontana persino del socialismo». Lo si è visto nella pandemia, frontiere chiuse, tutti nemici di tutti, geopotenze a rango di pirati per sottrarsi l’un l’altra le mascherine, una giungla globale. «Si è teorizzato che, nella lotta tra il mercato e lo statalismo, il crollo del comunismo avesse assegnato la vittoria al virtuoso mercato. Il quale, con la sua mano invisibile, avrebbe sistemato sempre tutto». «In fondo perdurava l’illusione delle due ideologie fondative del 900, il liberismo e il socialismo reale. Entrambe sostenevano che era possibile imporre con tempi accelerati – stakanovisticamente nel campo comunista e in maniera virtuosa nel campo liberale – un sistema di equilibrio automatico». Caduto il Muro «abbiamo eretto l’illusione che il comunismo potesse essere sostituito dall’avvento delle virtù della mano invisibile ma anche riequilibratrice del mercato. L’idea era che in caso di disgrazia sarebbe intervenuta la mano della Provvidenza. È il ‘provvidenzialismo del mercato’». Non è andata così. Nella pandemia il libero mercato globale non ha aiutato. Anzi.
«L’EQUILIBRIO NEL MONDO non è possibile se non attraverso le lotte, i conflitti», continua Formica, dunque «dobbiamo ricominciare da capo. Immaginare una globalizzazione per blocchi solidali. Forse più piccoli di un continente». L’Europa rischia di non uscirne unita? «È importante che l’Europa sia capace di coesione. Ma c’è l’eventualità che non sia tutta l’Europa, almeno in una prima fase. Per la riorganizzazione dei blocchi serve una base teorica, una prospettiva ragionata, possibile, a dimensione umana, in tempi non astrattamente futuribili. E c’è bisogno di una forza capace di assumere la guida del processo politico. Dovrà venire dall’interno degli stati che più hanno sofferto e pagato la lacerazione secolare».
QUI IL DISCORSO SCARTA in netta controtendenza rispetto alla vulgata di queste ore. «Nessuno ha la forza di dirlo, ma questa forza è la Germania. La Germania ha consumato al suo interno le due tragiche esperienze del 900: il nazismo e il comunismo di Stalin. Nessun altro paese ha avuto, in sequenza stretta, SS e Stasi. È un paese vaccinato dalle tragedie del 900. Deve essere la Germania a dimostrare che l’autoritarismo non è la soluzione per il riordino mondiale, in sintonia con le tradizioni culturali, politiche, sociali ed umane delle altre grandi storie europee».
DUNQUE SOSTIENE FORMICA che, comunque vada la trattativa fra i governi, in Europa «si apre la strada a un pensiero nuovo». Il ritorno allo stato? «Certo la sanità dimostra che solo il pubblico può investire sulla riserva di rischio, non è nella natura del privato». Ma il ritorno al pubblico «è un’idea semplicistica. Sento dire: rinazionalizziamo tutto. Ma cosa rinazionalizzi? Senza un chiarimento di fondo si brancola nel buio. Concetti come socialismo, comunitarismo, solidarismo, fratellanza, hanno come sottofondo una visione, una ideologia. E solo dopo un’applicazione pratica».
«SERVE UN PENSIERO NUOVO. E per cercarlo bisogna tornare alla Costituente. Il vero compromesso alla base della Costituzione fu quello fra due pensatori autonomi, uno del mondo cattolico e uno del mondo laico-socialista, La Pira e Lelio Basso, che si confrontarono nella Prima Sottocommissione. Fra loro vi fu un compromesso fondato su un’ideologia nuova. Che poi però fu imbrigliata dal pragmatismo politico-istituzionale, da Dossetti e Togliatti, le due chiese». Ecco, per Formica si può ripartire da lì. «Mi dicono che l’emergenza sarà economica, che primum vivere deinde filosofari. È vero il contrario: primum filosofari. Altrimenti non si saprà quali scelte fare per vivere».

https://ilmanifesto.it/rino-formica-la-globalizzazione-era-unillusione-serve-un-pensiero-nuovo/
 
Trump, un incubo per la salute degli Usa e del mondo
American psycho. Un incubo che negli Stati uniti è triplice. Medico: il sistema di cure è per la maggior parte privato e lascia fuori vaste fasce di popolazione. Economico: le vendite al dettaglio in marzo sono calate del 9% e 17 milioni di persone hanno chiesto la disoccupazione. E sociale: le minoranze etniche sono le più colpite

Fabrizio Tonello
EDIZIONE DEL16.04.2020
PUBBLICATO15.4.2020, 23:57
Il 29 febbraio scorso un uomo di 58 anni moriva a Seattle a causa del Covid-19. Ieri, 15 aprile, alle 17 ora italiana, i morti negli Stati uniti erano oltre 26mila: vittime non del destino, o dell’aggressività del coronavirus ma dell’incompetenza, buffoneria e criminale negligenza dell’amministrazione di Donald Trump.
Che in marzo aveva dichiarato ripetutamente che l’epidemia non sarebbe stata più grave di un semplice raffreddore. Martedì notte, in un maldestro tentativo di nascondere le proprie responsabilità, Trump ha ordinato di tagliare i fondi alla World Health Organization, l’agenzia dell’Onu che in queste ore sta aiutando tutti i governi del mondo a far fronte alla pandemia.
Poco importano, qui, i pretesti accampati dal presidente americano per giustificare la sua decisione (immediatamente condannata da tutti i governi del mondo e dalle stesse autorità sanitarie americane), il gesto di Trump ci dà la misura di quanto sangue e quante lacrime scorreranno prima di uscire dall’incubo.
Un incubo che negli Stati uniti è triplice: medico, economico, sociale.
Medico perché, come ben si sa, il sistema di cure è per la maggior parte privato e quindi lascia fuori dalla possibilità di curarsi vaste fasce di popolazione che non possono permettersi un’assicurazione sanitaria.
Economico, perché i dati di ieri del Dipartimento del Commercio confermano la profondità della crisi: le vendite al dettaglio in marzo sono calate del 9% rispetto a febbraio e, poiché le restrizioni agli spostamenti e altre misure di salute pubblica sono entrate in vigore solo a fine marzo, il bilancio di aprile sarà sicuramente peggiore.
Infine, sociale, perché le minoranze etniche sono le più colpite sia dal coronavirus in quanto tale sia dalla catastrofe economica in corso, non ancora valutata appieno nelle sue dimensioni.
Il premio Nobel Paul Krugman ha scritto qualche giorno fa che l’economia americana è «in coma medicalmente assistito», ovvero è in qualche modo tenuta in vita dalla Banca centrale che sta freneticamente stampando moneta, ma le sue condizioni sono allucinanti: ieri la borsa di New York ha di nuovo registrato un calo sostanziale e oggi si conosceranno i dati delle nuove perdite di posti di lavoro, in aggiunta ai 17 milioni scomparsi nelle tre settimane precedenti. La previsione è che altri 6 milioni di disoccupati si siano aggiunti alla lunga lista di sventurati.
Non serviranno a molto neppure gli assegni da 1.200 dollari che – firmati personalmente da Trump in un’altra esibizione di megalomania – arriveranno tra qualche giorno alle famiglie americane: chiunque debba pagare affitto, bollette, spostamenti casa-lavoro e scuola dei figli ne trarrà vantaggio al massimo fino a metà maggio, fra 30 giorni le condizioni dell’intero paese saranno paragonabili a quelle della Grande Depressione del 1930.
Un disastro che non ha ancora trovato il suo John Steinbeck per scrivere un romanzo come Furore, forse per trovare dei punti di riferimento bisognerà guardare alla letteratura di fantascienza post-atomica degli anni Cinquanta, quella che immaginava la vita dei pochi sopravvissuti a un conflitto nucleare, come On the Beach, di Nevil Shute.
Non è solo la vita delle persone a essere a rischio, né la ripresa dell’economia, sulla quale nessuno osa fare previsioni, ma la stessa democrazia americana, che si ritrova con un leader votato all’unanimità da 200 scienziati politici come il «peggior presidente nella storia degli Stati uniti».
Paradossalmente, da questo disastro Donald Trump potrebbe emergere come vincitore in un campo di rovine, in un deserto costellato di macerie, corpi sepolti in fosse comuni, città devastate.
Malgrado la maggioranza degli americani oggi disapprovi la sua gestione della crisi nessuno può dire cosa succederà il giorno delle elezioni.
Più simile a un moderno Caligola che a un capo di stato, Trump fa il deserto attorno a sé, licenziando esperti, collaboratori e autorità indipendenti con un tweet.
Il 3 novembre si dovrebbe votare (il condizionale è d’obbligo nella situazione attuale) ma in ogni caso Trump resterà in carica fino al 20 gennaio 2021: nove lunghissimi mesi in cui il mondo dovrà contare in vite umane il costo dell’elezione presidenziale del 2016.

https://ilmanifesto.it/trump-un-incubo-per-la-salute-degli-usa-e-del-mondo/
 
IL BOLLETTINO DELLA PROTEZIONE CIVILE
I numeri ufficiali aggiornati giovedì 16 aprile alle 18.
  • Sono + 1189 attualmente positivi al Covid-19 rispetto a ieri, per un totale di 106.607: 2.936 in terapia intensiva (-143), 26.893 ricoverati (-750) e 76.778 in isolamento domiciliare
  • Record numero di tamponi eseguiti 60.999
  • Mentre i nuovi positivi rilevati sono 3.786
  • I guariti sono +2.072, per un totale di 40.164
  • I deceduti sono 525. Sono 22.170 i decessi totali dall’inizio dell’epidemia
  • I casi totali finora sono stati 168.941
 

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