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Miscellanea

#61
Covid 19, l’emergenza sociale esplosiva dell’Italia diseguale
Pandemonio. Al Sud, il 13% degli individui vive in famiglie senza percettori di reddito, l’occupazione è al 44% , la disoccupazione è molto più alta, il lavoro nero e il sommerso più diffusi

Pier Giorgio Ardeni
EDIZIONE DEL29.03.2020
PUBBLICATO28.3.2020, 23:59
AGGIORNATO29.3.2020, 10:53
«Siamo entrati in questa crisi essendo già il Paese più diseguale d’Europa», dice oggi Peppe Provenzano su Repubblica, intervistato da Goffredo De Marchis. E fa bene il nostro giovane ministro a ricordarci qualcosa che nell’emergenza sanitaria era tornato in secondo piano. La disuguaglianza, che già era stato il motore dell’afflato populista, oggi rischia di provocare la rivolta, di fronte alle limitazioni alle attività e alla paralisi dell’economia. Soprattutto al Sud, dove lavoro irregolare e attività sommerse sono le più diffuse e «dove il lavoro nero dà da mangiare a più di 4 milioni di lavoratori», non solo in agricoltura.
IL NOSTRO GOVERNO, alle prese con l’emergenza sanitaria, ha già messo in campo strumenti ma questi appaiono insufficienti, sia perché rappresentano appena una toppa sulla crepa nella diga che rischia di travolgerci, sia perché non affrontano quei mali che più in profondità già affliggevano il Paese e che oggi, sotto la piena della pandemia, rivelano la fragilità e la mancanza di salvagenti per fasce di popolazione per troppo tempo lasciate ai margini.
Nel nostro Mezzogiorno le disuguaglianze di reddito sono molto maggiori che nel Centro-nord e, come se non bastasse, i minori redditi sono dovuti a differenti opportunità lavorative. Non solo il Sud è più povero del Nord ma è più diseguale e più esposto.
Al Sud, il 13% degli individui vive in famiglie senza percettori di reddito, il tasso di occupazione è al 44% (contro il 66 del Nord), la disoccupazione molto più alta, il lavoro nero più diffuso. Va bene dire «tutti a casa» per limitare il contagio, ma al Sud l’emergenza sociale c’è già e con il blocco dell’economia, che vive anche del sommerso, rischia di esplodere.
E POI, SI FA PRESTO a dire «tele-lavoro», quando il 16% del lavoro agricolo, il 10% del lavoro edile e il 23% del lavoro nei servizi alla persona è sommerso o irregolare: lavoro fisico, che non può essere sostituita da lavoro «a distanza». E, allo, stesso modo, si fa presto a dire «lezioni on-line» per tutti. «Per uno studente su cinque, niente teledidattica», nonostante la ministra Azzolina, «degli 8,3 milioni di studenti lasciati a casa ne sono stati raggiunti 6,7 milioni».
Se il governo ha pur stanziato 70 milioni che andranno per l’acquisto di pc e tablet «per chi non ce l’ha», il problema è più a monte e mostra una delle facce con le quali l’Italia diseguale sta affrontando l’emergenza. C’è infatti un’Italia che il pc o il tablet o anche internet non sa cosa sia e non ne fa uso mai e non perché non voglia: perché non può.
SECONDO gli ultimi dati Istat, «nel 2019, 38,8 milioni persone hanno navigato almeno una volta in Rete nell’arco di tre mesi». I 15-24enni sono più connessi, ma solo il 43 % usa un pc. Il problema è che in Italia solo il 76,1 % delle famiglie dispone di una connessione a internet. E anche in questo caso le differenze territoriali sono ampie e le disuguaglianze emergono evidenti (al Nord, gli internauti sono più del 72 %, mentre al Sud sono appena il 60 %).
L’assenza di connessione, è vero, è dovuta alla mancanza di conoscenza (c’è chi non sa usare internet) e alla mancanza di connessione o segnale. Se il fattore generazionale contribuisce a spiegare la prima, ad esso si aggiunge quello dell’istruzione – è soprattutto chi ha la licenza elementare o media, la maggioranza della nostra popolazione, a non saper utilizzare internet (appena il 46,1 %).
E poi, quante famiglie hanno in casa più di un pc? Se genitori e figli devo entrambi connettersi, quanti possono permetterselo? Inoltre, la connessione arriva nelle città, molto meno nei comuni piccoli. È, come sempre, l’Italia delle aree interne, delle periferie e delle regioni meridionali ad essere più penalizzata. Come quella che gode di un reddito appena sufficiente a «sbarcare il lunario».
Soprattutto al Sud. Quanto queste famiglie possano garantire che i propri figli siano in grado di seguire le lezioni on-line o possano svolgere il loro lavoro a distanza è facile da immaginare. L’Italia diseguale si trova dunque in una contingenza drammatica con pochi mezzi per affrontare l’emergenza e le «novità» che le sono state prospettate nelle ultime settimane.
C’È POI UN ALTRO aspetto che vale la pena menzionare a proposito di utilizzo di internet e comunicazione on-line ed è quello dell’informazione. A fronte di un Presidente del Consiglio che ricorre a Facebook per le sue comunicazioni al Paese – non più la televisione di Stato, non più comunicazioni «ufficiali» ma eloqui «informali» per «stare vicino alla gente» – abbiamo un Paese (parzialmente) connesso (non tutti, però, sono utenti di Zuckerberg), che riceve notizie e informazioni di vario genere, per lo più incomplete e sufficienti appena a tenere traccia del cataclisma che ci ha investito.
Non si vuole qui rimarcare il deficit strategico mostrato nella direzione della campagna per fronteggiare l’epidemia, quanto piuttosto rilevare come l’informazione fornita dagli organismi deputati – la Protezione Civile, ma anche l’ISS – sia largamente insufficiente per il cittadino per capire cosa gli sta succedendo intorno, nel Paese ma anche nella sua realtà locale.
Bene hanno fatto Alleva, Arbia, Falorsi, Pellegrini e Zuliani, da statistici, a richiedere che venga immediatamente messa in campo un’indagine campionaria per monitorare da vicino l’evoluzione del contagio – nel merito, non solo nei grandi numeri, guardando ai percorsi, ai soggetti colpiti e potenziali – ma non si può non rilevare come il nostro Istituto Nazionale di Statistica, in questo frangente, non si sia già adoperato per prestare la sua opera a contribuire ad una corretta e approfondita azione di informazione.
Un’indagine campionaria sarebbe di grande aiuto non solo a scopo scientifico e medico ma, soprattutto, per informare i cittadini e renderli partecipi e coinvolgerli in quell’azione responsabile che viene auspicata.
SI FA PRESTO a dire «restate a casa», «connettetevi», «state online», «lavorate a distanza» ma se questo venisse anche arricchito da un lavoro di informazione selettiva, cautelativa e, in ultima analisi, rassicurante sarebbe molto meglio per garantire quel processo partecipato di responsabilità civile che viene invocato. Se poi si vuole tenere l’Italia, già diseguale in partenza, anche disinformata e preoccuparsene solo promettendo pc e tablet poi, è un altro discorso.

https://ilmanifesto.it/covid-19-lemergenza-sociale-esplosiva-dellitalia-diseguale/
 
#62
Opinioni

Virus, echi del mondo che verrà
Pensiero critico. Rivisitazioni di un lessico per il futuro prossimo, a margine dell’ultimo saggio di Slavoj Žižek, «Virus», che il filosofo sloveno aggiornerà via via: da Ponte alle Grazie in versione digitale

Maurizio Ferraris
EDIZIONE DEL29.03.2020
PUBBLICATO29.3.2020, 0:18
AGGIORNATO26.3.2020, 12:58
C’è da attendersi che il moltissimo tempo libero cui si è costretti dal virus e dalla conseguente quarantena possa dar vita a dei Post Coronial Studies, che leggeranno tutta la realtà non più nel senso del dominio del Gestell tecnologico o del Kapitale satanico, ma del Virus. Sebbene con un tono meno infiammato e più sobrio del consueto, Virus, di Slavoj Žižek (traduzione di Valentina Salvati e Federico Ferrone, Ponte alle Grazie, pp. 48, € 3,99) sembra confermare questo sospetto.
Žižek scrive cose che, da lui, potevamo facilmente prevedere, e cioè che la crisi richiede una rinnovata solidarietà, ossia «una nuova forma di quello che un tempo chiamavamo comunismo» (appena possibile, sarebbe una buona idea sostituire il pugno chiuso alla stretta di mano) e che il «capitalismo si avvicina alla fine» (direi che prima di allora avranno trovato il vaccino) svolgendo argomenti di grande buonsenso. Dopo aver rilevato l’assurdo del riconoscere nel virus un complotto securitario che prende il posto del terrorismo, se la prende con il riduzionismo sociocostruttivista che vede in ogni evento, anche naturale, l’esito di un complotto e soprattutto cita un passo di una comunicazione personale del sociologo e architetto Benjamin Bratton che da solo vale il libro e indica un programma di ricerca e di riflessione per i filosofi, e in genere le persone di buona volontà, disposte a trarre da ciò che avviene insegnamenti e spunti di ricerca e innovazione, invece che la conferma di vecchi paradigmi: «La Cina ha introdotto misure che l’Europa occidentale e gli Stati Uniti con ogni probabilità tollererebbero a stento, a loro discapito, forse. Senza girarci attorno, è un errore interpretare riflessivamente ogni tecnica di rilevamento e modellazione come ‘sorveglianza’ e la gestione alacre della cosa pubblica come ‘controllo sociale’. Abbiamo bisogno di un lessico diverso e più sfumato per parlare dell’intervento». Parole non sante ma sagge, che però meriterebbero di non ridursi al semplice caso della sorveglianza. Abbiamo bisogno di inventare nuovi concetti per un nuovo mondo, e questo chiede tempo, ma intanto possiamo ripensare dei nomi vecchi. Ne elenco sette, non per ragioni cabalistiche ma perché non posso andare oltre le dodicimila battute.

Virtuale

Abbiamo passato gli ultimi decenni a leggere deplorazioni del fatto che la nostra vita di relazione è ormai svanita, e volata sulla nuvola del virtuale. La quarantena, con le restrizioni di movimento e di contatto che ci impone, dimostra che tutte quelle discussioni erano vuote, false e nel migliore dei casi concettualmente inadeguate. Non eravamo affatto entrati nel mondo dello spirito, eravamo ancora e sempre carne, appetibilissima per il virus, che si trasmette con grande facilità proprio perché non ce ne stiamo in casa, ma andiamo in giro, ceniamo, sentiamo concerti, prendiamo aperitivi, saliamo su treni, autobus, aerei. È questo il virtuale? Chi vuole, può crederlo. E ovviamente il culto del virtuale non ha portato il minimo ripensamento sulla natura del reale. È stato Marx a farci notare che Don Chisciotte si basa sugli effetti stranianti che derivano dalla sopravvivenza di modi di vita e di ideali feudali in un mondo in cui il feudalesimo è scomparso. Rispetto al mondo industriale, l’umanità si trova in buona parte nella stessa situazione di Don Chisciotte. Crediamo di vivere, insieme, in una nuvola, e in un mondo che non è molto diverso da quello analizzato da Marx, e dunque ci immaginiamo gli stessi problemi (l’alienazione sul lavoro, lo sfruttamento e la mancanza) e le stesse soluzioni che si sarebbero potute trovare cent’anni fa. Non stupisce che le soluzioni non risolvano (perciò la sinistra è in crisi e il populismo ha successo), e che si creino conflitti tra valori, in particolare fra la tutela del lavoro e la tutela dell’ambiente.

Apocalissi

Sino a pochissimo tempo fa era difficile non leggere delle lamentele sull’uragano di messaggi che si abbatte su di noi, sul cogito interruptus e su altre sciagure della postmodernità. Non so quanto sincere fossero quelle lamentele, ma di sicuro ora hanno perso ogni ragion d’essere. A volte, dalle crisi in cui va di mezzo la vita, e non solo i soldi, si esce con un patrimonio di buone idee e di buona volontà, con una rinnovata voglia di vivere e di fare . L’apocalitticità da due soldi che ha caratterizzato molta riflessione degli ultimi decenni, dall’annuncio della fine della storia alla tesi secondo cui le guerre finanziarie sono molto peggiori di quelle reali, si rivela per il niente che è e che era, una volta che un virus mostra la sua efficacia. Varrebbe la pena di osservare, a beneficio degli apocalittici, che una delle ragioni per le quali il virus ci preoccupa, è che la nostra sanità, a misura di quanto è avanzata, potrebbe da un momento all’altro entrare in crisi; cinquant’anni fa, senza terapie intensive, il problema non si sarebbe posto. Sarebbe stata un’ecatombe, anche se non proprio come la Spagnola visto che il Coronavirus sembrerebbe essere meno aggressivo. Ecco una prova incontestabile del fatto che l’umanità va verso il meglio, che la scienza fa progressi e che la medicina è un sapere a cui dobbiamo tutta la nostra riconoscenza e non un Komplotto delle multinazionali.

Biosfera

Di passaggio, l’epidemia ci ricorda una cosa ovvia, ma che si è portati a dimenticare quando, non senza ingenuità, si definisce il Web come una infosfera, un mondo virtuale che poco alla volta inghiottirà il mondo reale. Ovviamente non è così. L’intelligenza artificiale si nutre di intelligenza naturale, cioè dei nostri comportamenti, e questi sono determinati dal fatto che siamo organismi, con un metabolismo che ci impone ritmi vitali. Il Web non è affatto una infosfera, ma una biosfera, un ambito in cui la vita viene registrata, calcolata, definita nelle sue regolarità, e soprattutto in cui la vita detta i tempi e le urgenze, tanto nelle condizioni ordinarie quanto in quelle straordinarie.
Proprio perché la nostra è una biosfera, conviene che ce ne stiamo a casa. Il che offre una possibilità unica alla vita degli individui e delle collettività, quella di dedicare del tempo alla riflessione e alla progettazione, a partire dalle contingenze (per esempio, come si organizza un insegnamento a distanza e come si perfeziona il telelavoro? Sono cose che torneranno utili in futuro) per poi venire a piani di più lungo respiro, che possono trarre un enorme vantaggio dal silenzio circostante. Un esempio fra i tanti. Chi diceva «dobbiamo salvare il pianeta» diceva una nobile sciocchezza. Ci sono forme di vita, tra cui il Coronavirus, che si sostituiscono a noi con successo, alla faccia dell’antropocene (concetto in se stesso dubbio e che ora rivela tutta la sua presunzione), riducendo le polveri sottili e l’inquinamento più di ogni decreto. Non dobbiamo salvare il pianeta, dobbiamo salvare l’umanità, che è tutto un altro paio di maniche.

Mani

«Umani, lavatevi le mani». Nel Trattato della creazione dell’uomo, che risale alla fine del quarto secolo della nostra era, Gregorio di Nissa stabilisce una correlazione essenziale tra l’acquisizione della mano e lo sviluppo del linguaggio, che Darwin riproporrà senza variazioni quattordici secoli più tardi. Se gli umani non avessero le mani, allora il loro volto, come quello dei quadrupedi, avrebbe una forma allungata, labbra adatte non ad articolare parole ma a brucare, e una lingua spessa e callosa buona per impastare gli alimenti. Il prerequisito per la formazione del linguaggio è meno il possesso di una massa cerebrale particolarmente sviluppata (come sarebbe logico seguendo l’ipotesi di Aristotele e di Heidegger) che non la disponibilità di una mano, d’accordo con Anassagora e Derrida. La mano libera la bocca, i denti e la lingua, e li rende disponibili per la parola: passaggio che non va inteso semplicemente come uno sviluppo fisiologico, ma anche come un evento tecnologico, economico e sociale. Perché la mano, diversamente dalla bocca, può munirsi di bastone, e procedere a una serie di capitalizzazioni che sarebbero impossibili se la bocca dovesse compiere l’ufficio della mano.

Globalizzazione

Il virus ci ricorda anche ciò che il buon senso non dovrebbe mai farci dimenticare, e cioè che la terra è rotonda, con buona pace dei terrapiattisti, e che dunque gli esseri umani, così come i virus, sono destinati a entrare in contatto invece che a disperdersi. Non solo i virus, ma le idee, non conoscono confini; il virus è indubbiamente meno interessante delle idee, ma dal virus, come da ogni difficoltà, possono venir fuori delle buone idee. O si possono smentire le cattive idee. Se ci fate caso, si è di colpo cessato di parlare di sovranismo, e gli stessi che esortavano a cacciare i migranti si lamentano adesso degli italiani trattati come appestati. È il caso manifesto in cui una idea confusa e anacronistica trova la sua immediata obsolescenza alla prova dei fatti. O più esattamente si rivela per quello che è: egoismo. Lo si potrà magari nobilitare, come fece Antonio Salandra quando giustificò come «sacro egoismo» il venir meno ai patti con l’Austria e la Germania e la discesa in campo a fianco dell’Intesa, ma sempre egoismo è. Come il cosmopolitismo, e per gli stessi motivi (la terra è rotonda) la globalizzazione è un destino, ed è un destino auspicabile, visto che riduce le differenze tra gli esseri umani e ottimizza la ridistribuzione delle risorse. Immagino l’obiezione di chi osservi che la globalizzazione ottimizza anche la distribuzione dei virus, e mi è capitato di leggere in questi giorni che il Coronavirus ci presenta il conto della globalizzazione. Difficilmente si potrebbe dire qualcosa di più sbagliato. La peste nera che nel Trecento uccise un terzo della popolazione europea veniva dalla Cina proprio come il Coronavirus. O c’era la globalizzazione nel Trecento (il che in un senso è vero, ma per ogni tempo, appunto perché la terra è rotonda) o il Coronavirus non ci presenta il conto di un bel niente.

Resto

Concludendo il suo intervento Žižek svolge delle belle considerazioni sul carattere ontologico del virus, a metà strada tra la vita e la morte, che vive solo a contatto con il vivo. Del resto, la pretesa di vivere a tutti i costi, per un mortale, è la più assurda che si possa avanzare. Lo ricordava bene Federico il Grande alla battaglia di Kolin, 18 giugno 1757, che esortò i suoi soldati mentre stavano già arretrando: «Cani, volete vivere in eterno?» È una frase che ci richiama a ciò che Schelling nomina come il «resto non superabile».
Žižek lo cita e commenta che nella sua condizione di semivivo e di semimorto il virus è proprio l’emblema di un simile resto. Mi sembra una bella immagine, e sospetto che a sua volta Schelling avesse in mente Isaia, che parla di un resto che ritornerà, sopravvissuto alla distruzione (un passo considerato da molti la matrice del messianismo). Il resto è dunque, proprio come il virus, un monumento della morte nella vita e un monumento della vita nella morte, ed è ciò che ci fa vivere, morire e nel frattempo pensare.

https://ilmanifesto.it/slavoj-zizek-echi-dal-mondo-che-verra/
 
#63
La vita contro il profitto: la vera “guerra” ai tempi del coronavirus
Stato e capitale. Lo stato di emergenza convive paradossalmente con la negazione dell’emergenza. Nel cuore dello stato capitalista è in atto uno scontro tra sovranità e capitale. Lo stato, infatti, non può sposare definitivamente la linea del potere capitalista senza accettare una compromissione definitiva della sua stessa giustificazione

Marina Calculli
EDIZIONE DEL29.03.2020
PUBBLICATO28.3.2020, 23:59
AGGIORNATO29.3.2020, 15:08
«Mai come ora la nostra comunità deve stringersi forte come una catena a protezione del bene più importante, la vita. Se dovesse cedere un solo anello di questa catena saremmo esposti a pericoli più grandi, per tutti».
Con queste parole, la sera del 20 marzo, il premier Conte annunciava la chiusura delle attività produttive non essenziali e una restrizione ulteriore della libertà di movimento dei cittadini rispetto alle misure del precedente decreto “Cura Italia”.
Eppure sin dall’inizio della crisi, accanto ai cittadini costretti a restare confinati in casa, moltissimi sono stati altrettanto costretti ad andare a lavorare, esponendosi al rischio di contrarre il virus e al pericolo di diffonderlo.
Come è noto, la questione ha creato tensioni tra governo e sindacati per settimane, soprattutto a fronte della spiccata correlazione tra diffusione del virus e distribuzione del settore manifatturiero sul territorio nazionale. Per molti la chiusura delle attività non essenziali andava disposta almeno due, se non tre settimane prima.
Peraltro, anche dopo l’entrata in vigore del nuovo decreto, la controversia è proseguita per alcuni giorni, dato che molte delle attività produttive ‘non-essenziali’ – complessivamente il doppio di quelle pattuite da governo e parti sociali – erano rimaste aperte. Confindustria pontificava perentoria che «la stretta deve essere conciliata con le esigenze produttive», anche se poi lo sciopero generale convocato dai sindacati – una mobilitazione che ha avuto adesioni tra il 60 e il 90% – ha forzato il governo ad attenersi agli accordi originali.
Questa schizofrenia non è purtroppo una peculiarità italiana. Dagli Stati Uniti all’Europa i governi stanno assumendo misure contraddittorie, annunciano disposizioni per poi rimangiarsele e generano gran confusione nelle opinioni pubbliche, spesso parandosi dietro l’incertezza del momento.
Ma piuttosto che l’incertezza, questa tensione ci rivela uno scontro tra due logiche opposte: da una parte l’imperativo di proteggere la vita; dall’altra, l’imperativo di proteggere il profitto. La prima è la logica dello stato, la seconda è quella del capitale​
Per lo stato la vita è al centro della costruzione del patto sociale. Sulla capacità di proteggere la vita umana senza fare distinzioni di valore (ad esempio tra cittadini utili e inutili, produttivi e non produttivi) si fonda la legittimità stessa dello stato. In maniera antitetica, il capitale s’interessa alla vita umana fintanto che questa sia funzionale a massimizzare il profitto: le persone hanno, insomma, un valore solo nella misura in cui producono e consumano.
È esattamente la logica che ha segnato prima la negazione e la messa in ridicolo della crisi (coloro che dicevano ‘è solo un’influenza!), slittata progressivamente verso l’idea che la stretta non può comunque frenare la produzione, l’unico polmone che conta davvero.
Si tratta evidentemente di due logiche inconciliabili che la pandemia del coronavirus – una crisi senza precedenti nell’era del capitalismo globalizzato – ci dà l’opportunità storica di tracciare in modo forse inedito: da una parte, riusciamo ad avere un senso ancora più tangibile della profonda e ‘invisibile’ penetrazione del potere del capitale nello stato; dall’altra, siamo di fronte ad una fondamentale divergenza tra stato e capitale – una divergenza che può essere mistificabile in tempi di relativa normalità ma diventa impossibile da camuffare nel bel mezzo di una pandemia.
Sin dalla fine della guerra fredda, nonostante la retorica anti-statista del capitalismo neoliberista, il capitale privato ha di fatto progressivamente catturato le funzioni principali della sovranità, senza tuttavia mostrare il suo volto. Lo stare dietro le quinte non è casuale, ma risponde al proposito di manovrare la sovranità, senza assumersene le responsabilità morali. SI potrebbe addirittura dire che l’invisibilità del capitale è la chiave della massimizzazione del profitto: ciò che ha permesso al potere capitalista di forzare l’imposizione di politiche inique, scaricando sui governi il fardello del malcontento dei cittadini e la gestione delle conseguenze sociali dell’ineguaglianza.
L’emergenza del coronavirus sta però portando questa tensione allo scoperto.
Il disprezzo che il capitale mostra per la vita umana mette in questione la legittimità stessa dello stato costringendo quest’ultimo a reagire contro il capitale. Il conflitto diretto tra le due logiche è inevitabile e, proprio per questo, offre una possibilità storica alle forze anticapitaliste di mobilitare lo stato di emergenza contro il capitale, se non addirittura difendere lo stato dal capitale, reclamando il ritorno dell’interventismo dello stato in nome del bene comune.
L’emergenza è senza dubbio un momento assai delicato, soprattutto per le democrazie. È facile che nell’eccezione conquistino terreno le tentazioni autoritarie, come sottolineato ancora una volta di recente da Giorgio Agamben.
Curiosamente però il pessimismo di Agamben si concentra sulla sottomissione dei cittadini ad uno stato autoritario (seppur temporaneamente) in nome della mera sopravvivenza. È sorprendente come Agamben, che pure ci ha insegnato a riconoscere l’uso sinistro dei poteri emergenziali dello stato, resti concentrato sulla disciplina dei nostri corpi segregati in casa e sulla restrizione delle libertà di movimento, senza notare la perniciosa necropolitica delle aziende insita nel negare, sminuire o ignorare l’emergenza, pur di non fermare la produzione e l’accumulazione del profitto.
Così come è difficile non osservare che i vecchi profeti della flat tax, delle privatizzazione e dei tagli alla sanità e al welfare, coloro che hanno mobilitato per almeno tre decenni una serie di artefatte ‘emergenze’ economiche per svilire e precarizzare il lavoro a vantaggio dell’accumulo del profitto, siano gli stessi che oggi sostengono che le misure di protezione dal coronavirus – dalle mascherine al potenziale futuro vaccino – non debbano essere accessibili a tutti, ma soggetti alla legge dell’incontro tra domanda e offerta.
Tutto mentre gli stati mobilitano risorse eccezionali per scampare al collasso del sistema economico. Sono gli stessi che oggi, dal calduccio di svariati metri quadri e in modalità smart working, fanno l’apoteosi di una logica omicida che, pur servendosi dello stato, ostenta disprezzo per l’idea stessa di bene pubblico. Valga da sintesi il tweet di Vittorio Feltri: «meglio morire di virus che vivere di sussidi».
La situazione è insomma assai più complessa di come la descrive Agamben: lo stato di emergenza convive paradossalmente con la negazione l’emergenza. Nel cuore dello stato capitalista è in altri termini in atto uno scontro tra sovranità e capitale. Lo stato, infatti, non può sposare definitivamente la linea del potere capitalista senza accettare una compromissione definitiva della sua stessa giustificazione.
È una questione che va oltre il regime politico che governa lo stato e l’egemonia culturale del capitalismo, ma riguarda la raison d’être dell’istituzione dello stato, ben più simile in questo aspetto alla religione.
Il potere dello stato si fonda infatti sulla sua capacità di irreggimentare la vita. Per quanto brutale e autoritaria sia questa procedura, essa ha bisogno di essere riconosciuta dai cittadini. Persino per Hobbes, gli uomini cedono “volontariamente” la loro libertà allo stato.
Il patto sociale siede cioè sul comune interesse per la vita che, seppur per motivi assai diversi, lo stato condivide con i cittadini. In un famoso passo della Politica (1278b, 23-31), Aristotele ci ricorda che gli uomini formano associazioni politiche «in quanto così ciascuno vive meglio». Ma lo fanno «anche soltanto per salvaguardare la vita».
Il capitale va in una direzione del tutto opposta, gerarchizzando il valore delle vite umane e svilendo l’essenza stessa del patto sociale. È una logica perversa che mai come oggi deve essere denunciata e smascherata.​
Volendo cedere per un momento alla abusata metafora della ‘guerra’, mentre le fabbriche si trasformano in ‘campi minati’, accanto agli ospedali e i supermercati, l’inevitabile prima linea del fronte, l’emergenza del coronavirus rivela che l’unica vera guerra è quella di classe.
Le forze anticapitaliste nella società hanno, forse paradossalmente, l’opportunità di ripartire durante questa pandemia, proprio dalla riaffermazione dell’uguaglianza del valore delle vite umane, per reclamare una vita dignitosa che il capitalismo tende a disintegrare strutturalmente, non eccezionalmente.
L’affermazione del principio per cui non esiste vita che possa essere sacrificata sull’altare del libero mercato e del profitto è una battaglia da condurre oggi nell’opinione pubblica, riaffermando lo sciopero come strumento di lotta politica, sincretizzando la logica dell’eguaglianza della vita a quella dignità (delle protezioni sociali, dei salari, etc). Seppur restando a casa, dallo spazio ristretto delle nostre case, lo stato di emergenza potrebbe essere anche l’occasione essenziale per recuperare spazio politico all’interno dello stato a detrimento del capitale, smascherando e guardando finalmente la faccia della mano invisibile.

https://ilmanifesto.it/la-vita-contro-il-profitto-la-vera-guerra-ai-tempi-del-coronavirus/
 
#64
Caos Ue: dopo il Mes e i Coronabond, ora la terza via passa dalla Banca Europea degli Investimenti
Reazioni a catena. Dopo lo scontro tra i capi di stato di giovedì la prima settimana delle trattative su una politica economica europea anti-virus riparte in salita. Ora si fa strada l'idea del rifinanziamento della Bei con 1500 miliardi. Il realismo del commissario Ue all'economia Paolo Gentiloni sgombra il campo dalle illusioni del governo italiano

Roberto Ciccarelli
EDIZIONE DEL31.03.2020
PUBBLICATO30.3.2020, 23:59
Le due settimane concesse dai 27 capi di stato europei per trovare un accordo di massima sul coordinamento delle politiche economiche europee contro la pandemia da Covid 19 sono iniziate in salita. Lo si è visto ieri dal rinvio dal 5 al prossimo 7 aprile dell’Eurogruppo che dovrebbe trovare una mediazione nel gioco di veti incrociati tra il fronte del Nord (la Germania e i suoi satelliti olandesi o finlandesi) e il gruppo dei nove paesi, tra i quali l’Italia, che ha chiesto l’emissione di un titolo di debito comune definito «Coronabond». La situazione è congelata e si resta alla fotografia dello scontro di giovedì scorso: al momento l’Unione Europea non ha una risposta univoca contro la crisi, salvo la sospensione del «Patto di stabilità» e della norma che impedisce gli «aiuti di Stato».
CON REALISMO, il commissario Ue all’economia Paolo Gentiloni ha sgombrato ieri il campo da almeno due equivoci che sono serviti in questi giorni a rendere confuso l’approccio del governo italiano a un negoziato drammatico. Gentiloni ha detto che l’emissione di bond per «mutualizzare il debito non sarà mai accettata» dalla Germania e dai suoi alleati. Per questo è necessaria una proposta più ristretta e finalizzata ad «affrontare l’emergenza sanitaria» e a finanziare la proposta della Commissione Ue su un nuovo strumento di garanzia per la disoccupazione e un piano per il sostegno alle imprese». Anche sul Meccanismo europeo di stabilità (Mes o «Fondo Salva Stati») sul quale si è molto pasticciato nel dibattito italiano Gentiloni ha detto di non essere «ottimista». E ha suggerito di spostare «la discussione su come finanziamo i nostri obiettivi» e di «capovolgere la discussione» tenuta fino ad oggi. Sul tavolo esistono ipotesi diverse .
LA PIU’ ACCREDITATA ieri, tra l’altro dallo stesso Gentiloni, è stata quella di un rifinanziamento della Banca europea degli investimenti (Bei) guidata dal tedesco Werner Hoyerche che potrebbe avere «un ruolo soprattutto nel sostegno alle imprese». Su questa ipotesi a Bruxelles circolano voci su cifre importanti: il rifinanziamento di un entità secondaria, com’è oggi la Bei, potrebbe arrivare anche a mille o millecinquecento miliardi di euro. In questa cornice ci sarebbe anche la disponibilità della Banca Centrale Europea (Bce) a emettere un bond comune. Questa è una delle prospettive che potrebbe esentare la Bce da uno dei problemi sollevati anche al suo interno: la perdita dell’ indipendenza per finanziare le necessità fiscali degli Stati. Una simile attività assicurerebbe invece un limite agli acquisti dei titoli superiore alla quota del contributo fissato per ciascun paese. In ogni caso la Bce ha assicurato che il nuovo programma di acquisti dei titoli, denominato «Qe pandemico», potrà superare il limite.
LA «TERZA VIA» suggerita anche da Gentiloni potrebbe riscuotere un interesse nel riluttante governo di Angela Merkel a cui è stato affidato il ruolo tradizionale di trovare la sintesi in uno scontro dal quale si è tenuto fuori, limitandosi a inviare messaggi indiretti: quello della bocciatura dei «coronabond» fatta dalla presidente tedesca della Commissione Ue Ursula Von Der Leyen dopo un’iniziale apertura. Lo stesso ministro francese dell’economia Bruno Le Maire ha ipotizzato il ricorso a nuove misure a beneficio di tutti gli stati, presentandosi come mediatore tra il gruppo dei «nove», al quale partecipa la Francia, e la sfinge di Berlino.
LA PRIMA settimana delle trattative sembra così partire con un’ipotesi resa necessaria dopo un doppio rifiuto: quello di Italia o Spagna ad usare il «Mes» e essere assoggettate a vincoli di bilancio drammatici, e quello degli olandesi (dunque della Germania) a concedere una riforma di questo meccanismo, oltre che l’emissione di un titolo comune di debito. La strada verso il compromesso intergovernativo dove alla fine ciascuno resterà sulle proprie posizioni, cercando di dimostrare alle proprie opinioni pubbliche di avere vinto sul nazionalismo economici degli altri, è ancora lunga.

https://ilmanifesto.it/caos-ue-dopo...passa-dalla-banca-europea-degli-investimenti/
 
#65
Un evento inatteso che spinge verso la poesia della vita
TEMPI PRESENTI. Pandemia: la filosofia dello stato d’eccezione cambia. E la cooperazione può prevalere sulla competizione

Alfonso M. Iacono
EDIZIONE DEL01.04.2020
PUBBLICATO1.4.2020, 0:01
AGGIORNATO31.3.2020, 17:44
Mentre sto scrivendo ho la fortuna e il privilegio di poter guardare gli alberi dell’Orto Botanico di Pisa che si stagliano nel cielo in un quadro senza prospettiva, quasi come in un dipinto di Cézanne. Dopo molto tempo sento gli uccelli cinguettare e i cani abbaiare. Mi alzo per prendere un libro nell’altra stanza e, affacciandomi alla finestra che dà sulla via che porta alla Torre Pendente, non vedo nessuno per strada, i negozi, i ristoranti e le pizzerie chiuse e nel silenzio assordante che riempie la via, non posso non pensare alla fiumana di persone di tutte le razze che durante tutto l’anno si muovono incessantemente con azioni sempre uguali eppure sempre diverse. Penso a quanto può essere smarrito oggi chi non può lavorare né guadagnare, penso a coloro che rischiano lavorando, ma penso anche a come potrebbe essere una vita dove al rumore di fondo delle auto si sostituisca il suono degli esseri viventi, dal frusciare degli alberi al parlare degli animali, in un mondo più lento e meno ansiogeno.
ARNALDO MOMIGLIANO, storico antico che dovette fuggire dall’Italia in seguito alle leggi razziali del 1938, ebbe a ricordare che «la misura dell’inatteso è infinita». Oggi siamo nell’inatteso. Quando questo accade il primo tentativo di risposta è quello di cercare di inquadrare l’evento inaspettato nei propri schemi mentali e culturali. Lo sapeva già Democrito il quale faceva originare la credenza negli dei e nella religione dalla paura nei confronti dei fenomeni irregolari della natura, una cometa, un fulmine. Alla paura si sostituisce pian piano lo stupore, allo smarrimento il bisogno di conoscenza.
IL CORONAVIRUS è un evento inatteso, di fronte al quale, a causa della sua epocalità, dobbiamo rivedere molte delle nostre certezze filosofiche e teoriche. Una pandemia di questo genere nell’età della cosiddetta globalizzazione rende superflua e inutile, ad esempio, la filosofia dello «stato d’eccezione» che andava bene, forse, nel secolo scorso e probabilmente fino al 1989, cioè fino alla caduta del Muro di Berlino, quando nella sinistra occidentale si cercavano pratiche di libertà compatibili con un comunismo alternativo al cosiddetto socialismo reale sovietico e cinese. Ma arrivò il neoliberismo e mise le cose a posto. Smantellò l’organizzazione del lavoro di fabbrica, abbatté il potere operaio, spostò, aumentandoli, gli spazi dello sfruttamento e delle diseguaglianze, aziendalizzò i servizi dello stato sociale come la sanità, la scuola e l’università, smantellò lo stato sociale. Aveva ragione Mark Fisher quando parlava di Realismo Capitalista. Il mondo come una grande azienda la cui filosofia pratica è la competizione, l’individualismo, la messa ai margini della cooperazione e della solidarietà confinate nel mondo del volontariato, la libertà e l’eguaglianza come diritti che convivono sullo stesso piano con l’onnipotenza e il desiderio di sopraffare l’altro.
QUESTO FA SÌ che, oggi, ogni tentativo da sinistra di denunciare le sopraffazioni dello stato coercitivo in nome della libertà si confonde con l’idea di libertà la cui espressione estrema è offerta dagli americani che vanno in farmacia a comprare le mascherine ma anche nell’armeria a comprare fucili e pistole. Tutto ciò in democrazia e, appunto, non in nome dello stato d’eccezione, bensì della libertà individuale intesa come identificazione con la proprietà privata così come, in fondo, l’aveva teorizzata John Locke alla fine del 1600 e poco dopo meravigliosamente descritta da Daniel Defoe nel suo capolavoro Robinson Crusoe.
Quando nell’isola Robinson vide un’orma si spaventò e cominciò a costruire un muro, il primo di una lunga serie che dalla letteratura (fino a Kafka) è passato alla realtà storica delle barriere israeliane, statunitensi, nigeriane, ungheresi, turche e ora per un’Europa che non è Europa. Quando la sinistra oggi lotta in nome della libertà, non riesce quasi più a distinguere tra una libertà il cui limite è il rispetto della libertà dell’altro e una libertà in cui l’altro è soltanto un limite all’espansione del proprio ego.
QUESTO VALE per gli individui come per gli stati e lo stiamo vedendo ora in Europa e in Usa. In questa confusione non ci servono metafore come il rizoma di Deleuze e Guattari, che non ci fanno uscire dall’immagine neoliberista della vita sociale, mentre la teoria foucaultiana del potere-sapere deve essere delimitata e rilocalizzata. L’ultimo Foucault si era reso conto che il potere non è un male in sé, ma va esercitato senza trasformarlo in dominio.
TORNIAMO allora al coronavirus. La pandemia ci sta insegnando semplicemente che ne possiamo uscire solo se la cooperazione prevale sulla competizione, il senso collettivo sull’individualismo, la sanità e la scuola non saranno più aziende alla ricerca del Pil, il debito pubblico può aiutare a ricostruire quello stato sociale che il neoliberismo ha smantellato. Non credo né allo stato d’eccezione né al capitalismo che pianifica. Oggi nel capitalismo più che mai prevale, al contrario, ciò che Melville fece dire al capitano Achab e cioè che il fine era folle ma i mezzi erano razionali. Dobbiamo fermare la follia del fine e ricercare, nel disincanto, la poesia di un altro mondo possibile, perché quello in cui viviamo assomiglia a una danza di topi dentro una nave che affonda. Se non sarà la pandemia, prima o poi ci faranno annegare i disastri ambientali. Sì, la poesia della vita, l’unica cosa per cui valga veramente la pena di lottare e di lottare insieme per l’eguaglianza reale in un mondo diverso.
Il disincanto di una politica realista forse è necessario, ma non sufficiente. Dalle mie radici siciliane ho imparato che il narcisistico culto individualistico del disincanto ci ha portato, come ebbe a osservare amaramente Leonardo Sciascia, a non credere alle idee e a vantarcene come espressione di una realistica intelligenza superiore di chi ha visto tutto e riduce ogni sentimento a retorica. È stato ed è un grave errore, appunto, esso stesso retorico.
A FORZA DI CERCARE i mezzi che non troviamo, perdiamo il senso del fine perfino quando parliamo e scriviamo da sinistra e su questo il neoliberismo ha vinto. Voglio ciò che temiamo di dire perché, troppo presi dalla nostra posizione di critici disincantati ma assuefatti, abbiamo pudore a parlarne. Voglio il tempo lento per una vita poetica, che non è tale se non è per tutti, e lo voglio proprio ora che l’inatteso frantuma le nostre sicurezze, mette a nudo le nostre paure fisiche, sconvolge le nostre fragilità conoscitive.
È l’unico motivo che oggi può spingere, da sinistra, a una lotta che, di fronte a una crisi economica che ci devasterà e opprimerà ancora di più i deboli e gli sfruttati, pur dovremo fare, dopo che ci siamo chiesti dove eravamo e come eravamo prima che tutto questo inatteso accadesse. Se come, si dice, la politica è la scienza del possibile, allora dobbiamo dire proprio ora che un altro mondo è non solo necessario, ma anche possibile.

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#66
Aritmetica del contagio ed exit strategy (dalla quarantena)
Scenari. La transizione dovrà necessariamente passare da un attento bilanciamento tra le esigenze della ripresa e il contenimento del contagio ancora in corso, anche se in diminuzione. Ma vorremmo sapere come sarà, è una questione di democrazia

Pier Giorgio Ardeni
EDIZIONE DEL02.04.2020
PUBBLICATO1.4.2020, 23:59
I dati che la Protezione Civile e l’ISS ci forniscono ogni giorno, ripresi dai giornali, non sono sufficienti. Non basta infatti sapere quanti sono i nuovi casi accertati di contagio, i guariti e le morti legate al Covid-19. Questi numeri non bastano.
Noi cittadini abbiamo bisogno di saperne di più. Ci è stato imposto l’auto-isolamento ma questo confino domestico, per molti, è difficile e penoso. Come si pensa di rimettere in moto il Paese? Il “liberi tutti” non potrà arrivare tutto in una volta e dovrà essere dosato per fasi e luoghi e fasce di popolazione, altrimenti sarà rischioso. La transizione dovrà necessariamente passare da un attento bilanciamento tra le esigenze della ripresa e il contenimento del contagio ancora in corso, anche se in diminuzione. Ma vorremmo sapere come sarà, è una questione di democrazia.
Da quando è stata decisa una strategia di contenimento più aggressiva – con il lock-down esteso a livello nazionale – è stato anche dichiarato che tale strategia avrebbe mostrato la sua efficacia solo nel tempo e che solo una volta raggiunto “il picco” si sarebbe potuto immaginare un eventuale allentamento dei vincoli. Ora, rinchiudere in casa milioni di individui non solo limita le loro libertà, non solo porta al blocco delle attività che per molti rappresentano la fonte primaria di reddito, ma potenzialmente rischia di avete effetti psicologici e psichici gravi e che lasceranno il segno. Anche il Covid-19 provocherà disuguaglianze e dovrà essere la politica a contenerle.
È stato detto: «dopo il picco», ma quale? Se si intende il numero totale dei contagiati attivi – ovvero quelli rilevati, meno i guariti e i deceduti – questo continuerà a crescere fintantoché se ne aggiunge anche uno solo al giorno. Non è evidentemente quello il picco di cui si parla. Si intende forse il numero netto dei nuovi contagiati, ovvero i nuovi contagiati meno guariti e deceduti? Negli ultimi cinque giorni quel numero è stato, in media, di 1198 persone al dì. Quando questo numero diventerà negativo il totale inizierà a calare ed è questo, forse, il famoso picco cui ci si riferisce. Ma se anche arriveremo in un tempo relativamente breve a quel valore, potranno forse le misure di limitazione ai movimenti allentarsi? Finché ci saranno nuovi contagiati, esse non potranno che essere modulate sul territorio e per fasce di popolazione.
Il giorno in cui fu emesso il DPCM che sanciva il blocco, il 10 marzo, risultavano all’appello 7.985 contagiati. In effetti, i più di quei contagiati si erano manifestati nelle due settimane precedenti (erano appena 221 il 24 febbraio). Nei 14 giorni successivi al 10 marzo i contagiati sono aumentati di 42.433 unità (ognuno di quei 7.985 iniziali ne ha contagiati più di 5).
E nei 7 giorni dopo, i nuovi contagiati sono aumentati di sole 25 mila unità. Il contenimento auspicato con il blocco ha dunque funzionato? Dei 77.635 contagiati contabilizzati il 31 marzo, più di 51 mila si sono aggiunti negli ultimi 14 giorni ma solo 25 mila nell’ultima settimana. Se, pertanto, nelle prossime settimane, la differenza bi-settimanale continuasse a diminuire (fino a diventare negativa), vorrebbe dire che il picco “quattordicinale” è già stato raggiunto (il 29 marzo): i contagiati aumenteranno ancora a fino a raggiungere un massimo, per poi finalmente diminuire e scendere a zero. Quale sarà quel massimo e quando questo avverrà dipenderà da come il contagio continuerà a diffondersi.
Già diversi studiosi si sono azzardati a fare previsioni, come quella di Franco Peracchi, che stima la fine dell’epidemia attorno al 10 maggio. Gli epidemiologi, possibilmente, possono farne di più accurate (se però ricorressero all’aiuto di qualche statistico). Ma non possiamo pensare che tutto rimanga fermo – con l’Italia agli arresti domiciliari – finché non vi sia un solo nuovo contagiato.
Vogliamo forse tenere un Paese in ginocchio senza iniziare a ragionare delle dinamiche del contagio e della sua limitazione? Dovremo consentire a fasce selezionate di popolazione di uscire di casa. I tassi mortalità, per luogo e condizione, potrebbero essere una guida importante (ad esempio, appena 300 su 34 mila contagiati sono i deceduti di età inferiore ai 60 anni, cioè meno dell’1%.
Quanti di questi avevano altre patologie?. Disponiamo di informazioni più dettagliate, che permettano di definire strategie ad hoc? Come sta immaginando il “comitato tecnico” del governo la transizione verso la fuoriuscita dalla quarantena? La politica latita. Eppure, le misure dovranno coinvolgere i cittadini tutti, con le adeguate informazioni, per consentire l’allentamento delle restrizioni per quelle situazioni che, statisticamente, non appaiono significative. Il lock-down ha colpito in modo trasversale ma non tutti ne pagheranno le conseguenze nello stesso modo.
L’economia di milioni di famiglie è in apnea e la tenuta democratica è a rischio, la ribellione e il disagio covano, nell’impossibilità a continuare la quarantena per quei milioni di italiani che non possono permetterselo.

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#68
Scudo sul mascherine-gate, Salvini ci aveva provato
Cura Italia. Ritirato un emendamento a prima firma del capo leghista. Come quelli del gruppo di Toti e di Fratelli d'Italia avrebbe sollevato da ogni responsabilità per non aver protetto i medici i dirigenti sanitari e «i soggetti preposti alla gestione della crisi». Governatori compresi

Andrea Fabozzi
EDIZIONE DEL05.04.2020
PUBBLICATO4.4.2020, 23:59
Nessuna responsabilità «penale, civile, contabile e da rivalsa» per chi ha mandato i medici e gli infermieri allo sbaraglio, senza protezioni adeguate dal contagio. Uno scudo totale per «i datori di lavoro degli operatori sanitari» e per «i soggetti preposti alla gestione della crisi sanitaria», dunque anche i presidenti di regione che quotidianamente accusano il governo per i ritardi nella fornitura delle mascherine. E però, evidentemente, si preoccupano di poter essere coinvolti in ragione della funzione di responsabili dell’organizzazione del servizio sanitario sul territorio. A offrire loro un salvacondotto preventivo avrebbe pensato l’emendamento che i senatori della Lega hanno presentato al decreto Cura Italia. O quello identico firmato dai senatori di Cambiamo!, il movimento di Giovanni Toti. Forse non casualmente un altro presidente di regione, come il leghista Fontana, il più attivo nella polemica sulle mascherine. Dopo la denuncia dei sindacati della funzione pubblica – «è una vergogna che lascia scoperti proprio i medici», hanno scritto ieri mattina Cgil, Cisl e Uil – Salvini ha annunciato che farà marcia indietro. Così come spiegano di voler fare – «a noi interessa solo proteggere i medici» – il senatore Quagliariello e gli altri del movimento di Toti.
Era impossibile non notare l’emendamento della Lega perché è il primo del fascicolo sul decreto Cura Italia e come prima firma ha quella di Matteo Salvini. L’ex ministro ora promette di ritirarlo perché «si presta a fraintendimenti», ma solo l’altro ieri aveva voluto inserirlo tra gli emendamenti «segnalati», cioè quelli ai quali il suo partito teneva di più.
La proposta era quella di immunizzare completamente i dirigenti sanitari e i responsabili della gestione dell’emergenza, una formula tanto ampia che avrebbe potuto comprendere entrambe le parti del mascherine-gate, sia i governatori che la protezione civile. Assolti da ogni colpa per la «necessità di garantire, sia pure con mezzi e modalità non sempre conformi agli standard di sicurezza, la continuità dell’assistenza sanitaria indifferibile sia in regime ospedaliero che territoriale e domiciliare». Nessuna responsabilità personale per aver mandato i medici nei reparti Covid disarmati, senza mascherine o con mascherina chirurgiche al posto di quelle filtranti, le introvabili Ffp2 o Ffp3.
Registrato il passo indietro della Lega, resta nel fascicolo degli emendamenti segnalati – che la commissione bilancio del senato discuterà domani pomeriggio nell’ampia sala Koch per garantire il rispetto delle distanze di sicurezza – un sub emendamento del senatore Nastri di Fratelli d’Italia che avrebbe lo stesso effetto di quello ritirato da Salvini. E c’è anche un emendamento del Pd (Boldrini-Collina) che però limiterebbe lo scudo ai datori di lavoro dei medici, escludendo i responsabili della gestione della crisi sanitaria. Diverso invece l’obiettivo di altri emendamenti del Pd (Marcucci e Stefano) che puntano a salvaguardare i medici e le strutture sanitarie dalle cause che potranno essere intentate dai parenti delle vittime. Limitando la responsabilità civile ai soli casi di dolo o colpa grave.

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#69
Le visite virtuali del patrimonio solitario
Beni culturali. Parte oggi Art you ready?: la campagna di tour virtuali tra musei, teatri, siti archeologici, biblioteche, che sostituisce gli ingressi gratuiti della prima domenica del mese

Redazione cultura
EDIZIONE DEL05.04.2020
PUBBLICATO5.4.2020, 9:58
In queste settimane di chiusura e di un patrimonio diffuso sul territorio reso invisibile dal virus, la prima domenica del mese – quella che apriva gratuitamente le porte dei musei e gli accessi ai siti archeologici – si trasforma. Art you ready? è la campagna del Mibact nata per tenere viva l’attenzione sui tesori culturali italiani, in assenza di pubblico. E così la tradizionale domenica che normalmente prevedeva l’ingresso libero si costella di visite speciali: tour virtuali in teatri, archivi, musei e biblioteche raccolti per l’occasione sul sito web del Ministero www.beniculturali.it/virtualtour. Sono tanti i percorsi digitali che danno vita a un vero e proprio Gran virtual tour della bellezza italiana, molti dei quali realizzati grazie alla collaborazione pluriennale tra il Mibact e Google Arts & Culture, ora riuniti all’interno della sezione Meraviglie d’Italia (disponibile su g.co/meraviglieditalia della piattaforma di Google). Un viaggio lungo tutta la Penisola che sarà anche al centro di una campagna di comunicazione social per l’intera giornata di oggi, 5 aprile.
Tutti sono invitati a partecipare con gli hashtag #artyouready e #granvirtualtour con i più diversi contenuti, dai semplici ma efficaci screenshots catturati durante le visite virtuali alle tradizionali foto scattate in visite del passato e conservate in smartphone o vecchi album, per continuare sul filone della domenica precedente in una vera e propria “seconda edizione” di Art you ready tanto richiesta sui social.
Nell’ambito della campagna nazionale #iorestoacasa, ci sarà la possibilità di ammirare dalle proprie case le sale di alcuni tra più importanti luoghi della cultura statali, i capolavori negli allestimenti museali, gli ambienti di diversi teatri dell’opera – autentici monumenti della musica – percorrendo i foyer e attraversando le platee e i palchi e di godere poi della ricchezza del patrimonio conservato negli archivi e nelle biblioteche monumentali.

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#74
L’incompetenza di Trump porta a una nuova Grande Depressione
Stati Uniti. Trump si preoccupa solo della sua rielezione e quindi vorrebbe che l’economia riprendesse al più presto a funzionare normalmente, ma la realtà è che gli Usa sono sulla strada di una nuova Grande Depressione, perfino più devastante di quella del 1929

Fabrizio Tonello
EDIZIONE DEL05.04.2020
PUBBLICATO4.4.2020, 23:59
Sullo schermo compare un uomo in divisa che mostra prima una sciarpa, poi un fazzoletto e infine una t-shirt nera. La piega accuratamente, poi la piega un’altra volta e un’altra ancora.
Infila due elastici alle due estremità, assicurandosi che siano ben fissati alla maglietta, poi si mette quella specie di sciarpa sul viso e tende gli elastici dietro le orecchie: ecco fatta la mascherina casalinga che dovrebbe proteggere gli americani dal Coronavirus. Benvenuti nell’ufficio del Surgeon General degli Usa, il portavoce del governo federale in materia di sanità.
Il viceammiraglio Jerome Adams si presenta in alta uniforme, con tutte le sue decorazioni, le bandiere dei servizi medici dell’esercito e della marina dietro di lui, come si conviene al suo ruolo. La carica fu istituita nel 1871 e ha non poco peso politico: parecchi predecessori di Adams fecero infuriare i loro presidenti esprimendosi in pubblico contro il fumo o per l’educazione sessuale.


Non è certo il caso di Adams, che nel video diffuso dal Center for Disease Control interpreta perfettamente l’approssimazione, l’incompetenza, il cinismo dell’amministrazione Trump nella gestione della pandemia. Benché qualunque farmacista dell’Alaska o di Puerto Rico vi possa dire che le mascherine casalinghe non servano a nulla, se non a dare un falso senso di sicurezza a chi le indossa, anche il sindaco di New York Bill De Blasio ha fatto raccomandazioni analoghe: ieri sera erano circa 2mila i morti in città, con una progressione rapidissima della pandemia in tutto lo stato.

Nel complesso degli Usa si registravano oltre 300 mila casi di contagio, con più di 8 mila morti. Per settimane Trump aveva minimizzato il problema, affermato che si trattava di «poco più di un raffreddore», oppure di un «virus cinese», o anche di un «complotto dei democratici». Ci sono voluti decine di migliaia di casi di contagio e, soprattutto, la scomparsa di 10 milioni di posti di lavoro in due settimane per fargli cambiare idea. E ancora ieri il presidente affermava che indossare mascherine fuori casa è una scelta, non un obbligo, e che lui non l’avrebbe indossata.

In realtà la crisi è diventata veramente una crisi solo nella settimana dal 23 al 27 marzo quando, lunedì 23, l’indice Dow Jones aveva toccato quota 18.308, ovvero 11.000 punti in meno rispetto al suo record del 20 febbraio: in un mese si era volatizzato il 38% dei valori azionari americani. Poi erano arrivate le promesse di un megasalvataggio dell’economia ad opera della Federal Reserve e del Congresso e, martedì 24, la borsa era risalita del 10%, a cui era seguita un’altra brillante performance il mercoledì e un’ulteriore crescita il giovedì, quando il Dow Jones aveva toccato quota 22.500.

Questa settimana Wall Street ha tentato di risalire ma le terrificanti mappe del contagio e le previsioni sul numero dei morti hanno sufficientemente spaventato gli operatori per far chiudere le contrattazioni venerdì a quota 21.052.

Il video di Adams mostra come in realtà nessuno sappia che pesci pigliare, nemmeno il prestigioso Center for Disease Control. Tutti capiscono che la pandemia si sta sviluppando a velocità impressionante, che tra pochi giorni il sistema ospedaliero di New York collasserà e che è solo questione di tempo prima che il conto dei morti superi quota 100 mila, forse 200 mila.

Trump si preoccupa solo della sua rielezione e quindi vorrebbe che l’economia riprendesse al più presto a funzionare normalmente ma la realtà è che gli Usa sono sulla strada di una nuova Grande Depressione, perfino più devastante di quella del 1929.

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#75
Covid-19, non torniamo alla normalità. La normalità è il problema
Pandemie. Il pericolo principale è pensare al Coronavirus come un fenomeno isolato, senza storia, senza contesto sociale, economico o culturale. Non c’è normalità alla quale ritornare quando quello che abbiamo reso normale ieri ci ha condotto a quel che oggi abbiamo. Il problema che affrontiamo non è solo il capitalismo in sé, ma anche il capitalismo in me


Ángel Luis Lara
EDIZIONE DEL05.04.2020
PUBBLICATO4.4.2020, 15:58
NOTA DEL TRADUTTORE
Quello che segue è l’articolo più intelligente, o uno dei migliori, che abbia letto sul Covid-19. Perciò ho fatto la fatica di tradurlo dallo spagnolo.
L’autore è Ángel Luis Lara, sceneggiatore e studioso di cinema il quale, evidentemente forzato a casa, si è messo a studiare la situazione. Ho conosciuto Ángel nel 2009 a San Cristóbal, in Chiapas, a un incontro promosso dall’Esercito zapatista di liberazione nazionale (Ezln) e chiamato “La digna rabia”, a cui lui, io e molti altri intellettuali e militanti erano stati invitati dagli zapatisti e dove ciascuno ha tenuto una sua “ponencia”, intervento, di fronte a migliaio di indigeni, messicani e gente venuta da ovunque e sedendo a fianco dei comandanti dell’Ezln e al subcomandante Marcos (oggi Galeano).
Per Ángel fu facile, parlare in spagnolo, lui è di Madrid, per me fu piuttosto terrorizzante. E comunque Ángel mi colpì per la sua intelligenza, arguzia, agilità nel saltare da una corrente culturale a un’altra: ero piuttosto invidioso.
Ora ho trovato questo articolo nello spazio che El Diario, quotidiano on line indipendente in Spagna, offre a Amador Fernandez-Savater, altro piuttosto giovane osservatore della società ai tempi del neoliberismo decadente, per lo meno dai tempi degli Indignados, e che cerco sempre di leggere per non sentirmi troppo stupido o tradizionalista.
L’articolo di Ángel Luis Lara è molto lungo, cioè inadatto a Facebook, dove hanno molto più successo invettive, epigrammi, slogan e foto di famiglia. Ma siccome da ragazzo leggevo molto Gramsci, mi è rimasta la convinzione che, come diceva all’ingrosso lui, lo studio è una faticosa assuefazione. Tanto più se si tratta di un fenomeno come la fine del mondo, o giù di lì, causata da un virus sconosciuto (uno dei tanti, in verità, solo che questo è peggiore). Perciò a volerci capire qualcosa e a immaginare cosa fare per venirne fuori, oltre a prendersela con i governanti per le loro stupidaggini o crimini, bisogna approfondire.
Traducendolo ho capito molte più cose, e questo è già un bel guadagno. Ecco l’articolo.
Pierluigi Sullo


Non torniamo alla normalità. La normalità è il problema
1.

Nell’ottobre del 2016 i suini neonati degli allevamenti della provincia di Guangdong, nel sud della China, cominciarono ad ammalarsi per il virus della diarrea epidemica suina (PEDV), un coronavirus che colpisce le cellule che ricoprono l’intestino tenue dei maiali. Quattro mesi dopo, tuttavia, i piccoli suini smisero di risultare positivi al PEDV, anche se continuavano ad ammalarsi e a morire.

Come confermarono gli esami, si trattava di un tipo di malattia mai visto prima e che fu battezzata come Sindrome della Diarrea Acuta Suina (SADS-CoV), provocata da un nuovo coronavirus che uccise 24 mila suini neonati fino al maggio del 2017, precisamente nella stessa regione in cui tredici anni prima si era scatenata l’epidemia di polmonite atipica conosciuta come SARS.

Nel gennaio del 2017, nel pieno dello sviluppo dell’epidemia suina che devastava la regione di Guangdong, vari ricercatori in virologia degli Stati uniti pubblicarono uno studio sulla rivista scientifica “Virus Evolution” in cui si indicavano i pipistrelli come la maggiore riserva animale di coronavirus del mondo.

Le conclusioni della ricerca sviluppata in Cina furono coincidenti con lo studio nordamericano: l’origine del contagio fu localizzata, con precisione, nella popolazione di pipistrelli della regione.

Ma come fu possibile che una epidemia tra i maiali fosse scatenata dai pipistrelli? Cos’hanno a che fare i maiali con questi piccoli animali con le ali?

La risposta arrivò un anno dopo, quando un gruppo di ricercatori cinesi pubblicò un rapporto sulla rivista “Nature” in cui, oltre a segnalare al loro paese il focolaio rilevante di apparizione di nuovi virus ed enfatizzare l’alta possibilità di una loro trasmissione agli esseri umani, facevano notare come la crescita dei macro-allevamenti di bestiame avesse alterato le nicchie vitali dei pipistrelli.

Inoltre, lo studio rese chiaro che l’allevamento industriale ha incrementato le possibilità di contatto tra la fauna selvatica e il bestiame, facendo esplodere il rischio di trasmissione di malattie originate da animali selvatici i cui habitat sono drammaticamente aggrediti dalla deforestazione.

Tra gli autori di questo studio compare Zhengli Shi, ricercatrice principale dell’Istituto di virologia di Wuhan, la città da cui proviene l’attuale Covid-19, il cui ceppo è identico per il 96 per cento al tipo di coronavirus trovato nei pipistrelli per mezzo dell’analisi genetica.

2.

Nel 2004, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), l’Organizzazione mondiale della salute animale (Oie) e l’Organizzazione delle Nazioni unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), segnalarono l’incremento della domanda di proteina animale e l’intensificazione della sua produzione industriale come principali cause dell’apparizione e propagazione di nuove malattie zoonotiche sconosciute, ossia di nuove patologie trasmesse dagli animali agli esseri umani.

Due anni prima, l’organizzazione per il benessere degli animali Compassion in World Farming aveva pubblicato sull’argomento un interessante rapporto. Per redigerlo, l’associazione britannica aveva utilizzato dati della Banca mondiale e dell’Onu sull’industria dell’allevamento che erano stati incrociati con rapporti sulle malattie trasmesse attraverso il ciclo mondiale della produzione alimentare.

Lo studio concluse che la cosiddetta “rivoluzione dell’allevamento”, ossia l’imposizione del modello industriale dell’allevamento intensivo legato ai macro-allevamenti, stava provocando un incremento globale di infezioni resistenti agli antibiotici, rovinando i piccoli allevatori locali e promuovendo la crescita delle malattie trasmesse attraverso alimenti di origine animale.

Nel 2005, esperti della Oms, della Oie e del Dipartimento dell’agricoltura degli Stati uniti e il Consiglio nazionale del maiale di questo paese elaborarono uno studio nel quale si tracciava la storia della produzione negli allevamenti dal tradizionale modello delle piccole fattorie familiari fino all’imposizione delle macro-fattorie industriali.

Tra le sue conclusioni, il rapporto segnalava, come uno dei maggiori impatti del nuovo modello di produzione agricola, la sua incidenza nell’amplificazione e mutazione di patogeni, così come il rischio crescente di disseminazione di malattie.

Inoltre, lo studio notava come la sparizione dei modi tradizionali di allevamento a favore dei sistemi intensivi si stava producendo nella percentuale del 4 per cento l’anno, soprattutto in Asia, Africa e Sudamerica.

Nonostante i dati e gli allarmi, non si è fatto nulla per frenare la crescita dell’allevamento industriale intensivo.

Oggi, Cina e Australia concentrano il maggior numero di macro-fattorie del mondo. Nel gigante asiatico la popolazione degli animali allevati si è praticamente triplicata tra il 1980 e il 2010.

La Cina è il produttore di animali allevati più importante del mondo, e concentra nel suo territorio il maggior numero di “landless systems” (sistemi senza terra), macro sfruttamento di allevamenti in cui si affollano migliaia di animali in spazi chiusi.

Nel 1980 solo il 2,5 per cento degli allevamenti cinesi era costituito da questo tipo di fattoria, nel 2010 raggiungeva il 56 per cento.

Come ci ricorda Silvia Ribeiro, ricercatrice del Gruppo di azione su erosione, tecnologia e concentrazione (ETC), una organizzazione internazionale che si concentra nella difesa della diversità culturale e ecologica e dei diritti umani, la Cina è la fabbrica del mondo.

La crisi scatenata dall’attuale pandemia provocata dal Covid-19 rivela il suo ruolo nell’economia globale, particolarmente nella produzione industriale di alimenti e nello sviluppo dell’allevamento intensivo.

Solo la Mudanjiang Ciy Mega Farm, una fattoria gigante situata nel nord-est della Cina, che contiene centomila vacche la cui carne e il cui latte sono destinati al mercato russo, è cinquanta volte più grande della più grande fattoria bovina dell’Unione europea.


3.

Le epidemie sono un prodotto dell’urbanizzazione. Quando circa cinquemila anni fa gli esseri umani cominciarono a raggrupparsi in città con una certa densità di popolazione, le infezioni poterono colpire simultaneamente grandi quantità di persone e i loro effetti mortali si moltiplicarono.

Il pericolo di pandemie come quella attuale si generalizzò quando il processo di urbanizzazione è diventato globale.

Se applichiamo questo ragionamento all’evoluzione della produzione di carne le conclusioni sono realmente inquietanti. In un periodo di cinquanta anni l’allevamento industriale ha “urbanizzato” una popolazione animale che prima si distribuiva in piccole e medie fattorie familiari. Le condizioni di affollamento di questa popolazione in macro-fattorie convertono ciascun animale in una sorta di potenziale laboratorio di mutazioni virali suscettibili di provocare nuove malattie e epidemie.

Questa situazione è tuttavia più inquietante se consideriamo che la popolazione globale di animali allevati è quasi tre volte maggiore di quella di esseri umani.

Negli ultimi decenni, alcune delle infezioni virali con maggiore impatto si sono prodotte grazie a infezioni che, oltrepassando la barriera delle specie, hanno avuto origine nello sfruttamento intensivo dell’allevamento.

Michael Greger, ricercatore statunitense sulla salute pubblica e autore del libro “Flu: A virus of our own hatching” (influenza aviaria: un virus che abbiamo incubato noi stessi), spiega che prima della domesticazione degli uccelli, circa 2500 anni fa, l’influenza umana di certo non esisteva.

Allo stesso modo, prima della domesticazione degli animali da allevamento non si hanno tracce dell’esistenza del morbillo, del vaiolo e di altri morbi che hanno colpito l’umanità da quando sono apparsi in fattorie e stalle intorno all’anno ottomila prima della nostra era.

Una volta che i morbi saltano la barriera tra specie possono diffondersi nella specie umana provocando conseguenze tragiche, come la pandemia scatenata da un virus dell’influenza aviaria nel 1918 e che in un solo anno uccise tra 20 e 40 milioni di persone.

Come spiega il dottor Greger, le condizioni di insalubrità nelle trincee della prima guerra mondiale sono solo una delle variabili che causarono una rapida propagazione del contagio del 1918, e sono a loro volta replicate oggi in molti dei mega-allevamenti che si sono moltiplicati negli ultimi venti anni con lo sviluppo dell’allevamento industriale intensivo.

Miliardi di polli, per esempio, sono allevati in questa macro-imprese che funzionano come spazio di contenimento suscettibile di generare una tempesta perfetta di carattere virale.

Da quando l’allevamento industriale si è imposto nel mondo, la medicina sta rilevando morbi sconosciuti e un ritmo insolito: negli ultimi trent’anni si sono identificati più di trenta patogeni umani, la maggior parte dei quasi virus zoonotici come l’attuale Covid-19.

4.

Il biologo Robert G. Wallace ha pubblicato nel 2016 un libro importante per tracciare la connessione tra i modelli della produzione capitalista di bestiame e l’eziologia delle epidemie esplose negli ultimi decenni: “Big Farms Make Big Flu” (le mega-fattorie producono macro-influenze).

Alcuni giorni fa, Wallace concesse una intervista alla rivista tedesca Marx21, nella quale sottolinea una idea chiave: concentrare l’azione contro il Covid-19 su mezzi d’emergenza che non combattano le cause strutturali dell’epidemia è un errore dalle conseguenze drammatiche. Il principale pericolo che fronteggiamo è considerare il nuovo coronavirus come un fenomeno isolato.

Come spiega il biologo statunitense, l’incremento degli incidenti con virus, nel nostro secolo, così come l’aumento delle loro pericolosità, sono direttamente legati alle strategie delle corporazioni agricole e dell’allevamento, responsabili della produzione industriale intensiva di proteine animali.

Queste corporazioni sono così preoccupate per il loro profitto da assumere come un rischio proficuo la creazione e propagazione di nuovi virus, esternalizzando così i costi epidemiologici delle loro operazioni agli animali, alle persone, agli ecosistemi locali, ai governi e, proprio come mostra la pandemia attuale, allo stesso sistema economico mondiale.

Nonostante l’origine esatta del Covid-19 non sia del tutto chiara, essendo possibili cause dell’infezione virale tanto i maiali delle macro-fattorie quanto il consumo di animali selvatici, questa seconda ipotesi non scagiona gli effetti diretti della produzione intensiva di animali.

La ragione è semplice: l’industria dell’allevamento è responsabile dell’epidemia di influenza suina africana (ASP) che ha devastato le fattorie cinesi che allevano maiali l’anno scorso.

Secondo Christine McCracken, la produzione cinese di carne di maiale potrebbe essere crollata del 50 per cento alla fine dell’anno passato. Considerato che, almeno prima dell’epidemia di ASf nel 2019, la metà dei maiali che esistevano nel mondo veniva allevata in Cina, le conseguenze per l’offerta di carne di maiale sono state drammatiche, particolarmente nel mercato asiatico.

E’ precisamente questa drastica diminuzione dell’offerta di carne di maiale che avrebbe motivato un aumento della domanda di proteina animale proveniente dalla fauna selvatica, una delle specialità del mercato della città di Wuhan, che alcuni ricercatori hanno segnalato come l’epicentro dell’epidemia di Covid-19.

5.

Frédéric Neyrat ha pubblicato nel 2008 il libro “Biopolitique des catastrophes” (biopolitica delle catastrofi), una definizione con la quale egli indica una maniera di gestire il rischio che non mette mai in questione le cause economiche e antropologiche, precisamente le modalità di comportamento dei governi, delle élites e di una parte significativa delle popolazioni mondiali in relazione alla pandemia attuale.

Nella proposta analitica del filosofo francese, le catastrofi implicano una interruzione disastrosa che sommerge il presunto corso normale dell’esistenza. Nonostante il suo carattere di evento, si tratta di processi in marcia che mostrano, qui e ora, gli effetti di qualcosa che è già in corso.

Come segnala Neyrat, una catastrofe sempre si origina da qualche parte, è stata preparata, ha una storia.

La pandemia che ci devasta disegna con efficacia la sua caratteristica di catastrofe, tra l’altro nell’incrocio tra epidemiologia e economia politica. Il suo punto di partenza è saldamente ancorato nei tragici effetti dell’industrializzazione capitalista del ciclo alimentare, particolarmente nell’allevamento.

Oltre alle caratteristiche biologiche intrinseche dello stesso coronavirus, le condizioni della sua propagazione includono gli effetti di quattro decenni di politiche neoliberiste che hanno eroso drammaticamente le infrastrutture sociali che aiutano a sostenere la vita. In questa deriva, i sistemi sanitari pubblici sono stati particolarmente colpiti.

Da giorni circolano nelle reti sociali e nei telefoni mobili testimonianze del personale sanitario che sta combattendo con la pandemia negli ospedali. Molti coincidono con la descrizione di una condizione generale catastrofica caratterizzata da una drammatica mancanza di risorse e di personale sanitario.

Come annota Neyrat, la catastrofe possiede sempre una storicità e dipende da un principio di causalità.

Dagli inizi del secolo, differenti collettivi e reti cittadine hanno denunciato il profondo deterioramento del sistema pubblico della salute che, per mezzo di una politica reiterata di sottrazione di capitali, ha condotto praticamente al collasso la sanità in Spagna.

Nella Comunidad (Regione) di Madrid, territorio particolarmente colpito dal Covid-19, l’investimento pro capite destinato al sistema sanitario si è andato riducendo in modo critico negli ultimi anni, mentre si scatenava un parallelo processo di privatizzazione. Sia la cura primaria come i servizi di urgenza della regione erano già saturi e con gravi carenze di risorse prima dell’arrivo del coronavirus.

Il neoliberismo e i suoi agenti politici hanno seminato su di noi temporali che un microorganismo ha trasformato in tempesta.

6.

Nel pieno della pandemia ci sarà sicuramente chi si affannerà nella ricerca di un colpevole, si tratti di un capro espiatorio o di un furfante. Si tratta di certo di un gesto inconscio per mettersi in salvo: trovare qualcuno a cui attribuire la colpa tranquillizza perché depista sulle responsabilità.

Tuttavia più che impegnarsi nello smascherare un soggetto solo, è più opportuno identificare una forma di soggettivizzazione, ossia interrogarsi su uno stile di vita capace di scatenare devastazioni così drammatiche come quelle che oggi investono le nostre esistenze.

Si tratta senza dubbio di una domanda che non ci salva né ci conforta e meno ancora ci offre una via d’uscita. Sostanzialmente perché questo stile di vita è il nostro.

Un giornalista si è avventurato qualche giorno fa ad offrire una risposta sull’origine del Covid-19: “Il coronavirus è una vendetta della natura”. Al fondo non gli manca una ragione. Nel 1981 Margaret Thatcher depose una frase per i posteri che rivelava il senso del progetto cui lei partecipava: “L’economia è il metodo, l’obiettivo è cambiare l’anima”.

La prima ministra non ingannava nessuno. Da tempo la ragione neoliberista ha convertito ai nostri occhi il capitalismo in uno stato di natura. L’azione di un essere microscopico, tuttavia, non solo sta riuscendo di arrivare anche alla nostra anima, ma ha spalancato una finestra grazie alla quale respiriamo l’evidenza di quel che non volevamo vedere.

Ad ogni corpo che tocca e fa ammalare, il virus reclama che tracciamo la linea di continuità tra la sua origine e la qualità di un modo di vita incompatibile con la vita stessa. In questo senso, per paradossale che sembri, affrontiamo un patogeno dolorosamente virtuoso.

La sua mobilità aerea sta mettendo allo scoperto tutte le violenze strutturali e le catastrofi quotidiane là dove si producono, ossia ovunque.

Nell’immaginario collettivo comincia a diffondersi una razionalità di ordine bellico: siamo in guerra contro un coronavirus. Eppure sarebbe forse più esatto pensare che è una formazione sociale catastrofica quella che è in guerra contro di noi già da molto tempo.

Nel corso della pandemia, le autorità politiche e scientifiche dicono che sono le persone gli agenti più decisivi per arginare il contagio.

Il nostro confinamento è inteso in questi giorni come il più vitale esercizio di cittadinanza. Tuttavia, abbiamo bisogno di essere capaci di portarlo più lontano.

Se la clausura ha congelato la normalità delle nostre inerzie e dei nostri automatismi, approfittiamo del tempo sospeso per interrogarci su inerzie e automatismi.

Non c’è normalità alla quale ritornare quando quello che abbiamo reso normale ieri ci ha condotto a quel che oggi abbiamo.

Il problema che affrontiamo non è solo il capitalismo in sé, ma anche il capitalismo in me. Chissà che il desiderio di vivere non ci renda capaci della creatività e della determinazione per costruire collettivamente l’esorcismo di cui abbiamo bisogno.

Questo, inevitabilmente, tocca a noi persone comuni.

Grazie alla storia sappiamo che i governanti e i potenti si affanneranno a fare il contrario.

Non permettiamo che ci combattano, dividano o mettano gli uni contro gli altri.

Non permettiamo che, travolti una volta ancora dal linguaggio della crisi, ci impongano la restaurazione intatta della struttura stessa della catastrofe.

Benché apparentemente il confinamento ci abbia isolato gli uni dagli altri, tutto questo lo stiamo vivendo insieme.

Anche in questo il virus appare paradossale: si mette in una condizione di relativa eguaglianza. In qualche modo riscatta dalla nostra amnesia il concetto di genere umano e la nozione di bene comune. Forse i fili etici più efficaci da cui cominciare a tessere un modo di vita diverso a un’altra sensibilità.

Articolo pubblicato in italiano per gentile concessione dell’autore. Traduzione dal castigliano di Pierluigi Sullo. Edizione originale su El Diario.

https://ilmanifesto.it/covid-19-non-torniamo-alla-normalita-la-normalita-e-il-problema/
 
#76
Pandemia e animali, i focolai degli allevamenti industriali
Virus. Malattie un tempo rare sono diventate quasi una disciplina: ogni tecnologia una malattia diversa. Nel 1970 allevamenti con 7mld di animali, nel 20011 salivano a 24mld

Piero Bevilacqua
EDIZIONE DEL07.04.2020
PUBBLICATO6.4.2020, 23:59
Come per la Sars, esplosa in Cina a inizio millennio, il contatto con gli animali selvatici sembra sia all’origine della malattia che attacca i polmoni. Dovremo perciò evitare in avvenire le pratiche e le occasioni che portano ad avere rapporti con tali creature.
Raccomandazioni ormai ovvie. Ma basta questo? Noi dimentichiamo che proprio in casa nostra, non nella giungla amazzonica o nelle campagne della Cina, coltiviamo focolai di malattie potenzialmente epidemiche. Chi si ricorda delle epidemie legate agli allevamenti intensivi europei, come l’ Encefalopatia Spongiforme Bovina (Bse), quella prodotta dalla Salmonella DT104, dall’Escheria coli 0157, ecc.?
Andrebbe ricordato che l’industrializzazione degli allevamenti, che ha consentito la produzione e il consumo di massa di carne nelle società affluenti, è stata pagata con una vera e propria esplosione delle malattie tra gli stessi animali. Esemplare la testimonianza di un autorevole veterinario, Giovanni Ballarini: “Le malattie dei polli, che superficialmente mi erano state insegnate all ‘Università, si potevano contare sulle dita di una mano: dopo solo dieci anni erano diventate quasi una disciplina e si andavano”frantumando” in una complessa varietà di patologie, ognuna tipica di una determinata tecnlogia di allevamento, tipo di alimentazione, razza e varietà di animale” (L’animale tecnologico 1986).
Malattie degli animali che si manifestavano e restavano nelle aziende, ma che potevano anche dilagare all’esterno in forme impreviste. Lo stesso Ballarini, in un testo del 1979, Animali e pascoli perduti, metteva in guardia dal pericolo dell’allevamento intensivo dei bovini, che definiva una vera e propria bomba biologica. Nelle nuove stalle il continuo ricambio dei vitelli per le necessità della produzione industriale di carne, comporta l’immissione continua di nuovi capi, provenienti da ogni angolo del mondo. Una novità rispetto a tutta la precedente storia degli allevamenti, che porta dentro le stalle, con le bestie, nuovi batteri, insetti, virus.
E’ vero, che ieri e ancor più oggi, gli animali sono sottoposti ad accurata disinfezione, ambienti sono sterilizzati. Ma è proprio l’intervento di queste molecole chimiche di contrasto, ricordava sempre Ballarini, che può indurre qualche batterio o virus, capace di resistere ai trattamenti attraverso una mutazione genetica, a diffondersi nell’ambiente umano. Il fatto che non accada di frequente, che, ad esempio, tante malattie, come il temibile Circovirus suino, rimanga confinato ai maiali, si deve al caso e comunque a ragioni che la scienza – onnipotente solo nell’immaginazione degli ingenui – non conosce sino in fondo.
Del resto, si deve solo al caso se i cittadini europei sono scampati a un vero e proprio sterminio di massa. E’ il rischio che abbiamo corso, e per un momento temuto da alcuni scienziati: la possibilità che il prione, dell’encefalite bovina, potesse insediarsi nel sistema ghiandolare delle mucche, e quindi trasmettersi con il latte all’uomo. Che cosa, se non il caso, ha voluto che quel batterio killer restasse confinato nel cervello dei bovini?
Tuttavia la causalità con cui il Covid 19 dai pipistrelli è passato all’uomo non è della stessa natura di quella dipendente dal contesto degli allevamenti intensivi. Questi ultimi costituiscono una strategia economica delle imprese dell’agrobusiness per fare della produzione di cibo una lucrosa fonte di profitti. E occorre rammentare che questo sistema di produzione oggi appare per più versi insostenibile. Gli animali allevati nel mondo, passati da poco più di 7 miliardi del 1970 a oltre 24 miliardi del 2011(dati FAO), oggi sono forse raddoppiati.
Un numero comunque enorme, che già nel 2006 occupava per il “pascolo” il 26% della superficie terrestre, richiedendo l’occupazione di un altro 33% dei terreni agricoli per la produzione di mangimi. Cosi mentre nei luoghi in cui gli animali risiedono vengono inquinati con i liquami vasti tratti di territorio, le acque profonde e di superficie, liberando nell’aria metano e altri gas serra, nelle vaste pianure del Brasile, dell’Argentina, degli Usa, la superficie agricola è occupata da monoculture industriali di mais e soia ogm, che sottrae terre ai contadini e inquina il suolo. (A.Y.Hoekstra, The water footprint of modern consumer society, 2013).
In questo momento siamo allarmati dalla pandemia del Covid 19. Ma quanto accade oggi non ci deve far dimenticare che la nostra società poggia su un sistema di produzione del cibo gravido di rischi futuri.
A questo sistema è poi legata, una malattia non contagiosa, ma che negli anni, con gradualità, si è diffusa come una pandemia mortale: il cancro. Se si pensa con disincanto a questo aspetto, si comprende quanto i cittadini europei possono fare per cambiare le cose: sia mutando il proprio stile alimentare, sia lottando contro la politica agricola dell’Ue, che finanzia l’agricoltura inquinante e lascia le briciole ai contadini e agli agricoltori biologici.

https://ilmanifesto.it/pandemia-e-animali-i-focolai-degli-allevamenti-industriali/
 
#78
Eurobond, 200 scienziati e studiosi di tutta Europa scrivono ad Angela Merkel
L'iniziativa. Il premio Nobel per la chimica John Polanyi, il direttore Generale Emerito dell'Agenzia Atomica Internazionale Hans Blix e il Segretario Generale dela confederazione dei sindacati europei Luca Visentini si esprimono in favore degli Eurobond in una lettera aperta ad Angela Merkel

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EDIZIONE DEL07.04.2020
PUBBLICATO6.4.2020, 14:43
Sehr geehrte Frau Kanzlerin,
Con il diffondersi del Coronavirus – e come in molte altre occasioni – Lei ha dimostrato la capacità di sapere guidare il suo paese. Sia come cancelliera che come studiosa di fisica ha compreso l’entità dell’emergenza per la salute in atto e le sfide che comporta per l’Europa nel suo insieme.
Ora ci rivolgiamo a Lei in quanto cittadini tedeschi ed europei, per chiederle di guidare la risposta dell’Europa – nel solco della migliore tradizione politica tedesca di europeismo – alla crisi economica e finanziaria scatenata dalla pandemia.
Osserviamo, con grande preoccupazione, la crescita dell’ira, dell’acrimonia e dei risentimenti tra il Sud e il Nord dell’Europa. Un’epidemia non conosce confini tra Nord e Sud, ne’ deve costruirne. In quanto minaccia esistenziale alla stessa Unione Europea nel suo insieme, essa richiede nuove forme di solidarietà.
Se non dovessero prendere forma, alcuni paesi dovrebbero affrontare conseguenze ben più profonde di altri. Ciò ci preoccupa.
La Germania ricorda la drammatica recessione sofferta dopo la Prima Guerra mondiale. Se l’Europa nel suo insieme avesse prevenuto quella crisi, come sarebbe cambiata la storia? L’Unione Europea non è nata precisamente con lo scopo di scrivere un’altra storia?
Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, la Germania, più di ogni altro paese, ha dimostrato la capacità d’imparare dal suo amaro passato. L’immediata riforma delle sue forze armate e, soprattutto, il modo doloroso ma severo di affrontare atrocità collettive e individuali sono e rimangono il fondamento di una nuova Germania, come anche un aspetto importante dell’eredità europea.
In circostanze difficili, la visione europea della Germania ha superato pur legittimi interessi nazionali.
Nessun sostenitore di un’Europa unita può dimenticare l’impegno di una vita, quella di Willy Brandt, per una Germania europea e non per un’Europa tedesca. Un impegno condiviso da Helmut Kohl, che ha meritato il suo posto nella storia come principale partner di uno scambio virtuoso tra la creazione dell’euro e la riunificazione immediata della Germania, attraverso un dialogo solidale che ha coinvolto l’Europa nel suo insieme.
La pandemia ha determinato un’emergenza imprevista che richiede il medesimo dialogo solidale nell’interesse di tutti coloro che ne sono colpiti.
European Bonds, collegati a questa emergenza ma con un significato storico più ampio, sono la necessaria garanzia a completamento degli sforzi compiuti dalla Banca Centrale Europea e dai singoli stati.
Come suggerito da economisti tedeschi ed europei, questa proposta consentirebbe di affrontare un’emergenza che potrebbe altrimenti trasformarsi in una crisi dell’eurozona per finire in una tragedia sociale ed economica.
Cento anni or sono, le nazioni europee non seguirono i consigli di John Maynard Keynes e di altri pensatori ed economisti, determinando conseguenze catastrofiche. Non possiamo commettere oggi lo stesso tipo di errori.
È di fondamentale importanza agire oggi, dimostrando ai popoli europei la capacità di cogliere la sfida di una fase straordinaria.
Le chiediamo di guidare il Consiglio d’Europa, offrendo al mondo la prova che gli Europei sanno affrontare uniti questa crisi e che sono in grado di fare tutto il necessario per preservare la nostra unione e addirittura rafforzarla di fronte a questa sfida.
Abbiamo fiducia, gentile signora Merkel, che ciò accadrà sotto la sua guida contribuendo alla sua legacy di cancelleriera e di grande europea.
Info andrea.pisauro@psy.ox.ac.uk e giangiacomo.migone@gmail.com
La lettera è stata firmata finora da più di 200 scienziati politici, storici, giuristi, sociologi ed esperti internazionali da 29 paesi.
John Polanyi
, Professor of Chemistry, Nobel Laureate, University of Toronto (Canada)
Hans Blix, Director-General Emeritus of the IAEA – Vienna (Austria)
Luca Visentini – General Secretary, European Trade Union Confederation – Bruxelles (Belgium)
Alberto Alemanno, Jean Monnet Professor in EU Law at HEC Paris – Paris (France)
Sigrún Aðalbjarnardóttir – Professor Emeritus – Reykjavík (Iceland)
Carolina Alves – Research Fellow in Heterodox Economics University of Cambridge – Cambridge (UK)
Marie Arena – MEP – Belgium
Amanda Baker-Frommholz, leherin – Berlin (Germany)
John Barnes, Professor – Germany
Anthony Barnett, writer and activist – Oxford (UK)
Quique Bassat – ICREA research professor, Barcelona Institute for Global Health (ISGlobal) – Barcelona (Spain)
Catherine Bearder – fomer MEP – UK
Violeta Berisha – UNHCR Amabasador – Prishtina/ Kosovo
Felice C. Besostri, former Italian Senator (1996-2001) and membere of PACE – Milano (Italy) Cinthia Bianconi, President Olivetti Foundation – Rome (Italy)
Akeel Bilgrami, Professor of Philosophy, Columbia University – New York (USA)
Marja Bijl – vicepresident PES WOMEN – Rotterdam (Netherlands)
Irina Bondarevskaya – Associate professor, University of Educational Management NAES – Kiev (Ukraine)
Mario Bova, Ambassador, former Director General for Europe, Ministry of Foreign Affairs, (Italy) Franziska Brantner, former MEP and current MdB (Grunen) – Berlin (Germany)
Judith Bunting – former MEP and filmamker – UK
Ana Paula Caetano – Professor of Education – Lisboa Portugal
Gustavo Cardoso, Full Professor Media and Society – Lisboa (Portugal)
Paula Casal, ICREA professor of political philosophy – Barcelona (Spain)Stephan Castle – Honorary Professor in Sociology, University of Sydney (Australia)
Yohann Chaigneau – Economist BEI – Luxembourg (Luxembourg)
Sandra Chistolini – professor of Education – University of Rome 3 – Rome (Italy)
Hélène Conway-Mouret – Vice-présidente du sénat Paris (France)
Luke Cooper, Consultant researcher, London School of Economics, CCS – London (UK)
Melinda Cooper, Professor of Sociology and Social Policy- Camberra (Australia)
Manuel Cortes, General Secretary TSSA – London (UK)
Veena Das, Professor of Antropology, Johns Hopkins University – Baltimore (USA)
Donatella Della Porta, Professor of political science at Scuola Normale Superiore – Florence (Italy) Milos Djajic – Independent associate at Academy of arts in Novi Sad – Serbia
Caterina Di Fazio, Postdoc, Maastricht University/Agora Europe, Co-founder, Maastricht (Netherlands)
Zefi Dimadama – Vice President PESWOMEN / Dep. Spokeperson KINAL, PASOK – Athens (Greece)
Pascal Durand – MEP – France
Carmen Dutu – Associate Professor, Dimitrie Cantemir Christian University, Bucharest (Rumania) David Edgerton – Professor of modern British history at King’s College London (UK)
Roberto Esposito – Professore Scuola Normale Superiore – Pisa (Italia)
Ricahrd Etienne – Professeur émérite en sciences de l’éducation – Montepellier (France)
Trevor Evans – Professor of Economics – Berlin (Germany)
Daniel Innerarity Professor of Political Philosophy University of the Basque Country
Anna Falcone, avvocato, Rome (Italy)
Ana Maria Falu, Emeritus Professor National University of Cordoba – Cordoba (Argentina) Emanuele Felice, Professor of Political Economy, Università di Chieti-Pescara (Italy)
Josep Ferret Mas,Lecturer in phylosophy – Barcelona (Spain)
Marc Fleurbaey, Robert E. Kuenne Professor of Economics and Humanistic Studies – Princeton (USA)
Michele Fiorillo, CIVICO Europa /Scuola Normale Superiore – Verona (Italia)
Carlton Fitzgerald – Professor Uinversity of Oradea (Romania)
Jack Franco, DiEM25 UK National Collective – London (UK)
Geoff Gibas- Communications Strategist- Covid19 Best Practice Task Force – Bulle (Switerzland) Jason Gold, photographer – Skopje (Montenegro)
Cécilia Gondard – National Secretary, Parti Socialiste, France
Sandro Gozi – MEP – France
Piero Graglia, Professor of History of European integration at University of Milan – Milan (Italy) Stephany Griffith-Jones, Emeritus Professorial Fellow, IDS, Sussex University (UK)
Gianluca Grimalda, Senior researcher at the Kiel Institute for the World Economy – Kiel (Germany) Enrique Guerrero – former MEP – Spain
Bernard Guetta – MEP – France
Catherine Guicherd, Senior Consultant for humanitarian aid (France)
Sacriste Guillaume, Assistant professor in political science Université Paris 1 – Paris (France) Paula Guimarães – assistant professor – Lisbona (Portugal)
Nicole Tutiaux Guillon – Professeure émérite en sciences de l’éducation – Vertou (France)
Colin Hay, Professor of political science, Institut d’Etudes Politiques – Paris (France)
Susan Himmelweit, Emeritus Professor of Economics, Open University – London (UK)
Felix Hoffmann, coordinator Take a Break from Brexit – Breisach (Germany)
Bojana Culum Ilic – Associate professor in Eductation- University of Rijeka – Croatia
Michael Jacobs, Professor of Political Economy, University of Sheffield (UK)
Sheila Jasanoff, Professor of Public Policy – Cambridge (USA)
Janina Jetter – writer – Oxford (UK)
Michael Jonas – sociologist – Vienna (Austria)
Ben Judah, Author and fellow at the Hudson Institute – London (UK)
Naila Kabeer, Professor, International Development and Gender Studies – London (UK) Nathalie Karagiannis, poet and researcher – Barcelona (Spain)
Mary Kaldor, Professor of Global Governance, London School of Economics – London (UK) Andreas Kalyvas, Associate Professor of Politics – (Greece)
John Katsillis – Professor of Education – University of Patras (Greece) Michaela Kauer – Senior Official in Public EU Affairs – Vienna (Austria)
Jude Kirton-Darling, former UK MEP – Bruxelles (Belgium)
Sue Konzelmann, Reader in Management, Birbeck, University of London (UK) Arndt Kohn, former German MEP (SPD) – Stolberg (Germany)
Robert Kunst, Professor of Economics – Vienna (Austria)
Simona Laurian-Fitzgerald, Associate professor social study University of Oradea (Romania)
Marc Lazar, Professor of history and sociology, Institut d’Etudes Politiques – Paris (France)
Jo Leinen – former German MEP (SPD) – GermanyEveline Le Roy, Coordinator international relations VIVES University of Applied Sciences – Kortrijk (Belgium)
Beate Littig, Dozent, Institute for Advanced Studies – Vienna (Austria)
Nora Lustig,Professor of Economics – New Orleans (USA)
Chiara Mariotti, Development Economist, London (UK)
Dora Marucco, Professor of history of political institutions – Torino (Italy)
Fabian Muniesa, Professor of Economics/Social scientist – Paris (France)
Giorgio Maran, writer and activist – Varese (Italy)
Roulla Mavronikola – former MEP – Cyprus
Yves Mény – Emeritus President European University Institute (France)
Gian Giacomo Migone, former chair, Foreign Relations Committee, Senate of the Republic of Italy Niccolo Milanese, Director European Alternatives – Paris (France)
Sadia Mir – Academic in economics & policy, WUNRN EU – Bruxelles (Belgium)
Shaffaq Mohammed former MEP – UK
Simon Mohun – Emeritus professor of political economy, Queen Mary University of London (UK) Michael Newman – Jean Monnet Personal Chair – London (UK)
Jose Juan Moreso. Professor of Legal Philosophy Pompeu Fabra University – Barcelona (Spain) Richard Murphy, Professor of Practice in International Political Economy, City University, London (UK)
Lucy Nethsingha – former MEP – UK
Andrea Nightingale, Professor of Geography – Oslo (Norway)
Simone Oggionni, chair culture department Articolo Uno – LeU – Rome (Italy)
Martin O’Neill, Senior Lecturer in Political Philosophy – York (UK)
Prabhat Patnaik, Professor Emeritus, Jawaharlal Nehru University – New Delhi (India)
Andrea Pisauro, Associate Researcher in Experimental Psychology – University of Oxford (UK) Andrea Porcarelli – Associated Professor of Pedagogy in Padua University – Padova (Italy)
Stefano Prato – Managing Director, Society for International Development (SID) – Italy
Omri Preiss – Managing Director, Alliance4Europe – Bruxelles (Belgium)
Teresa Pullano – Assistant Professor in European Global Studies – Basel Switzerland
Hillel Rapoport, Professor of Economics – Paris (France)
John E. Roemer, Professor of politics and economics, Yale (USA)
Sandra Rone, Leading researcher Insitute of Humanities, director Inclusive Educational Development Centre – Riga (Latvia)
Pierre Rosanvallon, Professor of modern and contemporary political history, College de France Paris (France)
Alistair Ross – Jean Monnet Professor of Politics and Education, London Metropolitan University; London (UK)
Guillaume Sacriste, Assistant professor in political science, Université Paris 1 – Paris (France) Marie Laure Salles-Djelic, Professor, Dean School of Management and Innovation, Sciences Po Paris (France)
Saskia Sassen, Professor of Sociology – New York (USA) and London (UK)
Florbela Sousa, Senior Assistant Professor – Lisbon (Portugal)
Ognen Spasovski, Professor in Psychology, UKIM, Skopje (Macedonia)
Barbara Spinelli – former MEP – Italy
Shauna Stack, Researcher in social studies- Vienna (Austria)
Olle Svenning, columnist and former editor of “Aftonbladet” – Stockholm (Sweden)
Francois Taddei, Director, The Center for Research and Interdisciplinarity – Paris (France) Dominique Taddei, Economist – Monticello (France)
Irène Tolleret – MEP – France
PANAGIOTA TZELEPI – Professor Emerita University of Patras, (Greece)
Nadia Urbinati, Professor of Polical Science, Columbia University, New York (USA)
Anne-Marie Van den Dries – Former Head Internationalisation VIVES – De Pinte Belgium
Antoine Vauchez, CNRS Research professor at Université Paris – Paris (France)
Juan Carlos Velasco – Research Professor in Philosopy at CSIC – Madrid (Spain)
Roberto Veneziani, Professor of Economics – London (UK)
Mara Vidnere – Professor Institute of Economics and Management Research – Riga (Latvia) Caroline Voaden – former MEP – UK
Ingrid Volkmer, Professor, Digital Policy, University of Melbourne – (Australia and Germany)
Ulrich Volz – Director of the Centre for Sustainable Finance, SOAS, University of London (UK) Astrid Wagner – Research Scientist in Philosopy at CSIC – Madrid (Spain)
Peter Wagner, Professor of Social Sciences – University of Barcelona – (Spain and Germany) Julie Ward, former UK MEP – UK
John Weeks, Economist, Professor Emeritus of the School of Oriental and African Studies – London (UK)
Josef Weidenholzer, professor Emeritus, former MEP and Vice President of S&D Group, Linz Austria
Irina von Wiese – former MEP – UK
Andrew Williams – ICREA Research Professor – Barcelona (Spain)
Rudolf Winter-Ebmer – Professor of Econommics – Linz (Austria)
Nikki Wordsmith – Writer – London (UK)Salma Zulfiqar – artist – London (UK)
Tana de Zulueta, Spanish- Italian journalist and former member of the Italian Parliament – Rome (Italy)

https://ilmanifesto.it/eurobond-200-scienziati-e-studiosi-di-tutta-europa-scrivono-ad-angela-merkel/
 
#79
Fine della collaborazione, il Cura Italia non parte ancora
Al senato. In commissione bilancio non si vota neanche un emendamento al decreto, a rischio i tempi dell'aula. I senatori leghisti e quelli di Fratelli d'Italia accusano il governo di respingere tutti le proposte dell'opposizione. Ma la conta all'ultimo voto nell'emiciclo di palazzo Madama allargato per il pericolo contagio è impossibile

Andrea Fabozzi
EDIZIONE DEL07.04.2020
PUBBLICATO6.4.2020, 23:59
Business as usual ha voluto la maggioranza al senato, quando si è trattato di respingere ogni possibilità di partecipazione ai lavori da remoto. E puntualmente la conversione del maxi decreto Cura Italia si è trasformata in un percorso a ostacoli, impossibile da portare a compimento ora che l’epidemia minaccia i numeri dell’aula, già poco tranquillizzanti per il governo. L’arma della fiducia resta carica, ma viste le circostanze si avvicina a un azzardo, oltre che a una clamorosa smentita della mano tesa all’opposizione. Una collaborazione effettiva è indispensabile, viceversa l’atteggiamento non collaborativo dell’opposizione può bloccare tutto. È successo ieri sera, quando la commissione bilancio del senato si è riunita (nella più ampia sala Koch per tenere le distanze di sicurezza) e non è riuscita a votare neanche uno degli oltre mille e duecento emendamenti del fascicolo. Solo quelli segnalati (quelli ai quali i gruppi non intendono rinunciare) sono 520. Impossibile smaltirli in una sola giornata, quella di oggi, e dunque rispettare il calendario portando il provvedimento in aula domani, anche se il presidente della commissione Pesco (5 Stelle) dice che ci tenterà. Più probabile che slitti l’approdo in aula o che la legge di conversione ci arrivi senza relatore. Tutte soluzioni che mortificheranno il lavoro del parlamento sugli atti del governo, proprio quello che si voleva difendere opponendosi alla partecipazione online.
Ieri sera il centrodestra negava in ogni modo di aver fatto ostruzionismo, pratica difficile da giustificare quando bisogna rispondere all’emergenza coronavirus. Ma è stata la richiesta della Lega di votare tutti i suoi emendamenti e non solo quelli segnalati a far saltare le sedute di ieri. Tempo utile anche alla maggioranza, dopo che l’incontro di ieri mattina del ministro D’Incà con le opposizioni non aveva superato lo stallo. Tutti sanno che sarà impossibile votare in aula un numero alto di emendamenti, visto che ogni votazione somiglia a una manovra militare: niente voto elettronico e senatori tenuti a distanza di sicurezza. Per questo D’Incà ha chiesto al centrodestra di conservare solo qualche emendamento bandiera, rigorosamente senza oneri perché le coperture sono quelle che sono e non si può andare oltre, e trasformare tutti gli altri in ordini del giorno che il governo si impegna ad accogliere (così da non doverli votare, tanto sono impegni che si dimenticano presto).
«La collaborazione non significa solo ascolto, ma anche condivisione concreta», hanno detto i senatori della Lega, che alla maggioranza hanno presentato una serie di proposte tutte ad alto impatto finanziario: sospensione delle bollette fino a settembre, stop agli affitti per le società sportive, aumento di stipendio per i medici e gli infermieri (che ci sarà) oltre a un ennesimo “saldo e stralcio” delle cartelle Equitalia. Il partito di Giorgia Meloni, che insiste per inserire il «Golden power» già in questo decreto, si è smarcato dalla Lega spiegando di aver ridotto a 20 i suoi emendamenti, più 6 ordini del giorno. In ogni caso in aula bisognerà correre, considerando che siamo al primo passaggio, che è prevedibile una terza lettura del decreto e che a fine aprile il decreto scade. Va messa in conto anche la fibrillazione tra alleati, rintracciabile per esempio in un emendamento del relatore su Alitalia: la newco non sarà più affare del solo Mise ma anche dei ministri Patuanelli, Catalfo e De Micheli, due a due per Pd e 5 Stelle. La novità è negli emendamenti presentati dal relatore Pesco, le uniche certezze della giornata di ieri. Tra le quali la detraibilità delle donazioni alla Chiesa e due milioni di euro per le scuole paritarie. Idee della maggioranza. a. fab.

https://ilmanifesto.it/fine-della-collaborazione-il-cura-italia-non-parte-ancora/
 
#80
Di questi tempi, oramai, siamo abituati ai colpi di scena: "il virus avanza, no regredisce", "i morti aumentano, no, diminuiscono", "è stato trovato un farmaco efficace, no, siamo lontani dalla cura", eccetera.
Quello che non riusciamo ancora a digerire sono i classici "colpi di scemo", dei quali ho parlato in maniera sparsa su questo forum.
I due biondini eccellono (uno, purtroppo per lui, e me ne dispiace, si è dovuto ricredere sulla propria pelle).
Queste le ultime uscite del biondo "di là di oceano", preoccupato per la sua rielezione più della pandemia

Coronavirus, oltre 1900 morti in un solo giorno negli Usa. Almeno 65mila persone in fuga da Wuhan. Cina, isolata città al confine con la Russia

https://www.ilfattoquotidiano.it/20...olata-citta-al-confine-con-la-russia/5763509/
 
#84
CORONAVIRUS ITALIA: aggiornamento 8 Aprile. I CONTAGIATI salgono a 139.422 (+3.836), i MORTI a 17.669 (+542)
Tabella dati forniti dalla Protezione Civile - coronavirus covid-19
Articolo del 8/04/2020
ore 18:32
di Team iLMeteo.it Meteorologi e Tecnici
 
#86
L’epidemiologo Snowden: “Questa pandemia specchio di una globalizzazione letale”
L'intervista. Storico delle epidemie all'università di Yale: "Questa malattia è lo specchio dei nostri comportamenti: distruzione dell'ambiente, boom demografico, velocità degli spostamenti, disuguaglianze. Spero che al termine non ci sia un'amnesia sui motivi profondi del contagio. Serve l'assistenza sanitaria universale"

Stella Levantesi
EDIZIONE DEL09.04.2020
PUBBLICATO8.4.2020, 23:59
Può la storia delle epidemie aiutarci a comprendere la pandemia di coronavirus? Cosa abbiamo sbagliato in passato e cosa dobbiamo imparare a non sbagliare più? In che modo il Covid-19 ha cambiato il nostro rapporto con la morte? Ne parliamo con Frank Snowden, storico americano delle epidemie e della medicina, esperto di storia italiana moderna e professore all’Università di Yale, che in questo periodo vive in Italia.

Circostanze di emergenza come questa pandemia hanno, in alcuni casi, trasformato la guerra al virus in una guerra alla democrazia. Le emergenze vengono sfruttate per ottenere un’estensione dei poteri e un controllo sull’economia. In casi estremi con pieni poteri che portano all’ascesa di regimi autoritari come in Ungheria. È già successo in passato? Le pandemie hanno finito col “legittimare” derive autoritarie?

Le pandemie hanno il potenziale di rafforzare l’autoritarismo. Quello che sta succedendo con Viktor Orbán in Ungheria ma anche in Polonia, sono due esempi molto chiari di come l’emergenza sia una legittimazione di tendenze autoritarie di estrema destra per distruggere il sistema democratico e istituire un governo nazionalista e pseudo populista. Quindi è un pericolo. Ma questo non è un processo inevitabile.

Se si guarda all’ultima grande pandemia, l’influenza spagnola del 1918, sono state prese misure come il divieto di assembramenti – una sorta di precursore dell’auto isolamento – niente manifestazioni o parate, e i cittadini dovevano essere monitorati dallo Stato. Eppure, a quel tempo, non credo che nessuno avrebbe detto che sarebbero state permanenti e il risultato dell’influenza spagnola non è una dittatura.

Nell’Europa dell’Est, per esempio, il colera negli anni Trenta del diciannovesimo secolo ha consentito l’imposizione di misure di repressione draconiane, quasi medioevali. E lì fu qualcosa di duraturo.

Quindi credo sia possibile per gli autoritarismi sfruttare il potenziale emergenziale creato dalle malattie pandemiche. Ma l’effetto può anche essere il contrario.

La fine della schiavitù nelle piantagioni ad Haiti, per esempio, fu il risultato della distruzione dell’armata di Napoleone a causa della febbre gialla. E quello fu liberatorio: la prima Repubblica nera libera, la prima grande ribellione schiavista della storia, in parte radicata nella differenza di immunità e mortalità tra gli europei e gli africani, le truppe di Napoleone, gli europei, non avevano l’immunità di gregge alla febbre gialla, mentre gli schiavi africani sì.

Quindi direi che anche la libertà può essere conseguenza dalla pandemia. Il futuro non è predeterminato. Quanto vigili e reattivi saranno i cittadini farà un’enorme, decisiva differenza.

Quindi affrontare una pandemia non implica necessariamente l’autoritarismo?

Che le democrazie non siano adatte ad affrontare le pandemie è categoricamente falso. Direi anzi che le democrazie sono più adatte ad ottenere il sostegno popolare ed istituire razionali politiche sanitarie pubbliche perché permettono il libero flusso di informazioni, e la salute pubblica moderna dipende in realtà dalla libera informazione.

Spero che misure come quelle applicate in Corea del Sud rappresentino effettivamente un modello di ciò che una governance democratica – non sto cercando di promuovere la Corea del Sud, ma sto solo dicendo che è un governo eletto – può fare senza poteri autoritari di emergenza: praticare test diagnostici accurati, distanziamento sociale, quarantena e rintracciamento del contagio. Queste sono le componenti essenziali di ciò che deve essere fatto in questo momento.

Non abbiamo altre armi, non c’è nessun vaccino, nessuna cura. Non credo sia vera l’idea che abbiamo bisogno di un dittatore per affrontare la crisi.

In un’intervista al New Yorker lei ha detto “le epidemie sono una categoria di malattie che fanno da specchio agli esseri umani e mostrano chi siamo veramente”. E poi ha aggiunto che le epidemie riflettono il nostro rapporto con l’ambiente, sia quello che abbiamo costruito che l’ambiente naturale. Questo vale anche per la pandemia di coronavirus? Le epidemie sono lo specchio della vulnerabilità umana?

Credo che questo sia estremamente vero per il coronavirus; questa è la prima grande epidemia della globalizzazione. E credo che tutte le società creino le proprie vulnerabilità.

Permettimi di fare un paragone con un’altra malattia che è stata la più temuta del suo secolo, il colera nel diciannovesimo secolo. Era una malattia dell’industrializzazione e quindi dell’urbanizzazione dilagante – cioè l’ambiente costruito in modo catastrofico perché masse di persone si riversavano nelle grandi città in tutto il mondo industriale, dove non esisteva alcuna preparazione sanitaria o abitativa.

In città come Napoli o Parigi c’erano baraccopoli – nove, dieci persone in una stanzetta – in cui si viveva senza alcun sistema igienico-sanitario, né fognature o acqua potabile. E quindi una malattia che si trasmetteva per via orale-fecale, adattata a quell’ambiente, ne traeva il massimo vantaggio.

Il tifo, e il colera asiatico, direi, sono malattie sintonizzate sulle condizioni di industrializzazione e rappresentano, in questo senso, uno degli specchi della globalizzazione.

Con il coronavirus, ci sono almeno tre dimensioni che mostrano come la Covid-19 sia lo specchio di ciò che siamo come civiltà.

La prima è che stiamo diventando quasi 8 miliardi di persone in tutto il mondo.

Poi abbiamo il mito per cui si può avere una crescita economica e uno sviluppo infinito anche se le risorse del pianeta sono limitate, il che è una contraddizione intrinseca. Eppure abbiamo costruito la nostra società su questo mito, pensando che le due cose si possano in qualche modo conciliare. Quindi c’è un problema.

Inoltre, questo trasforma il nostro rapporto con l’ambiente e in particolare con il mondo animale. Abbiamo dichiarato guerra all’ambiente e distruggiamo l’habitat degli animali – questa è l’era dello sradicamento e dell’estinzione delle specie.

Quello che succede è che gli esseri umani entrano in contatto con gli animali con una frequenza e in modi che non sono mai accaduti in passato. E possiamo ora indicare quali sono le malattie che lo dimostrano: l’influenza aviaria per definizione, così come la MERS e la SARS e l’Ebola. E ora abbiamo il coronavirus.

Direi che questo schema non è casuale. Vuol dire che viviamo in un’epoca di ripetuti spillover. E in particolare sembra che siamo molto vulnerabili a quei virus per i quali i pipistrelli sono un ospite naturale.

Un’altra caratteristica della globalizzazione è che ora abbiamo creato un mondo di grandi città, di megalopoli collegate da un rapido trasporto aereo, il che significa che uno spillover che accade, scelgo un posto a caso, a Giacarta al mattino…lo stesso virus sarebbe presente a Los Angeles e a Londra la sera.

Quindi direi che il coronavirus sta sfruttando canali di vulnerabilità che noi stessi abbiamo creato.

Direi anche che questa pandemia è la quintessenza dell’epidemia di una società globalizzata. Globalizzazione significa distruzione dell’ambiente, il mito di una crescita economica infinita, un’enorme crescita demografica, grandi città e trasporti aerei rapidi; è tutto collegato.

E la pandemia nei paesi in via di sviluppo? Cosa ci mostra lo specchio?

Questa è una mia grande preoccupazione. Al direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità è stato chiesto: “Cosa ti tiene sveglio la notte durante questa crisi?”. E lui ha risposto, “quello che potrebbe succedere se questo virus si facesse strada nelle nazioni con poche risorse”.

Sono preoccupato ora che, mentre parliamo, il virus si sta diffondendo in diversi paesi dell’Africa, America Latina ed Asia. Temo che possa causare sofferenze inimmaginabili in quelle zone.

Il distanziamento sociale e lavarsi le mani sono alla base della nostra risposta. Certamente qui in Italia è proprio questo che le persone sono chiamate a fare.

Ma cosa significa, per esempio, in una favela a Rio de Janeiro o in una township in Sudafrica dove ci sono tante persone che vivono in una stanza? In un condominio di case popolari, poi, il distanziamento sociale è una presa in giro. E dove non si dispone nemmeno di servizi igienici? Lavarsi le mani non significa nulla.

Così voglio delineare quella che penso sia un’altra vulnerabilità che la nostra società della globalizzazione riflette: la disuguaglianza globale. Anche in un paese ricco come gli Stati Uniti questa malattia può affliggere tutti, ma in modo preferenziale e sproporzionato colpirà i poveri, le persone più vulnerabili del paese.

Questa è la verità dell’era della globalizzazione: ciò che colpisce i più deboli tra noi colpisce tutti e ovunque. Quindi penso che questo sia quello che stiamo per vedere nello specchio. E non è un bel riflesso.

È chiaro che abbiamo fatto degli errori. Continueremo a farli come prima?

In effetti la preoccupazione ora è che quando questo passerà, non faremo nulla, se non radicarci in una dimensione di amnesia.

La speranza è che, invece, ci renderemo conto che siamo profondamente vulnerabili, che è inevitabile che altre sfide microbiche come questa si ripresentino.

Ogni ambientalista può dire fin da ora che questo è inevitabile a causa dei rapporti che abbiamo creato con la natura: lo spillover si ripresenterà ancora e ancora. Donald Trump ha sollevato la domanda più critica e inquietante di questa epidemia: “Chi poteva saperlo?”. Io direi che tutti potevano saperlo.

Già nel 1997 con l’influenza aviaria gli epidemiologi hanno detto che la grande sfida per il mondo è la sfida dei virus polmonari. Siamo più vulnerabili e a questi dobbiamo prepararci. Siamo poi stati totalmente impreparati all’Ebola.

Anthony Fauci nel 2005 ha testimoniato al Congresso americano dicendo: “Sse si parla con qualcuno che vive nei Caraibi, si può dire a quella persona che la scienza del clima prevede inevitabilmente che gli uragani colpiranno i Caraibi e che è fondamentale essere preparati ad affrontarli. La scienza non può dire quando colpiranno o quanto saranno forti, ma stanno arrivando e non c’è via di scampo. Allo stesso modo, possiamo dire al mondo che sta arrivando una grande pandemia virale, in particolare una pandemia polmonare. Non posso dirvi quando o quanto sarà forte, se sarà peggio dell’influenza spagnola o più debole. Ma è inevitabile che ciò accada. E quindi dobbiamo prepararci o avremo una pandemia”.

Beh, non ci siamo preparati. Non solo negli Stati uniti ma anche in Italia e in altri paesi.

L’Italia non è esente da questo. Gli anni prima di questa pandemia sono stati caratterizzati da tagli alla ricerca scientifica e alle spese per il sistema sanitario. Per fortuna l’Italia ha un sistema sanitario e ospedaliero pubblico tra i migliori al mondo. Anche se il punto è che comunque mancavano una search capacity e attrezzature di protezione per gli operatori sanitari.

Ma gli Stati Uniti ne soffriranno ancora di più perché non hanno quello che ha l’Italia: un sistema sanitario a disposizione di tutti.

Uno dei modi essenziali per prepararsi al futuro è garantire che tutti sul pianeta abbiano accesso alle cure mediche gratuite, perché se qualcuno si ammala di un virus polmonare, questo si ripercuoterà su tutti nel mondo. E quindi, se qualcuno deve essere al sicuro, tutti devono essere coperti dall’assistenza sanitaria.

Nel suo libro “Epidemics and Society” lei parla del successo sardo nell’eradicazione della malaria nella prima metà del ‘900 per illustrare l’importanza dell’assistenza internazionale, che all’epoca coinvolse gli Stati Uniti. Di conseguenza, per sopravvivere alla sfida di un’epidemia, l’umanità deve adottare una prospettiva internazionalista? Lei cosa ne pensa?

Assolutamente sì. Penso che uno degli aspetti più preoccupanti di questa epidemia sia che il “muro di Trump” diventi la metafora dell’epoca in cui viviamo, la nostra fiducia nei muri, nei confini e nelle barriere nazionali per “proteggerci”. Questo sottrae risorse alle misure che dovrebbero in realtà essere prese e una cosa che sappiamo è che i microbi hanno zero rispetto per i confini nazionali e i confini politici.

Credo ci sia stata una qualche misura efficace nei travel ban messi in atto temporaneamente. La speranza era che i paesi che avevano un divieto di viaggio in vigore guadagnassero qualche settimana di tempo per prepararsi. Ora, molti paesi hanno sprecato quel tempo, hanno messo in atto i divieti e poi non hanno fatto nulla.

Il mio paese, gli Stati Uniti, è l’esempio perfetto di come si è sprecato tutto quel tempo…L’Unione Europea non è stata in grado di sviluppare e adottare piani di preparazione che potessero mettere in atto una unica risposta continentale alla malattia.

E quindi ogni paese dell’Unione ha adottato misure senza alcun coordinamento. E l’opinione pubblica è rimasta molto confusa non sapendo quale fosse l’approccio migliore.

Questo è un ambiente in cui fioriscono miti, paranoie e teorie del complotto. Un’epidemia di disinformazione ha alimentato la pandemia biologica e l’ha aiutata a proliferare.

Durante la terza pandemia di peste in Cina tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo serpeggiava una tendenza al razzismo e la convinzione che l’epidemia non avrebbe oltrepassato i confini cinesi, l’illusione dell’“immunità del bianco”. Sembra che questo elemento fosse presente anche all’inizio dell’epidemia di coronavirus in Cina, quando il virus era ancora limitato al territorio cinese. Pensa che questo possa essere uno dei motivi che ha portato l’Occidente a sottovalutare il rischio legato a questa epidemia? Una sorta di fallacia psicologica, l’illusione che l’epidemia di coronavirus non si sarebbe diffusa al di fuori della Cina, che non avrebbe colpito l’Occidente?

Credo assolutamente che sia vero. Hai menzionato la terza pandemia di peste e tra l’altro il razzismo non era solo limitato alla Cina. È andato avanti mentre l’epidemia si diffondeva. L’abbiamo visto in India e anche in alcuni luoghi del mondo industriale come San Francisco, dove la terza pandemia di peste all’inizio del ventesimo secolo ha visto dilagare la xenofobia; era la “malattia di Chinatown”. E questo oggi dove ci porta? C’è la riluttanza di tanti leader politici a imparare le lezioni del passato.

Mi ha stupito il fatto che il Partito Repubblicano ha insistito su questo virus come il “virus cinese”… che si appella alla xenofobia come un modo per affrontare questa crisi. E credo che questo venga fatto consapevolmente… è una tentazione perenne, che ha fatto parte della storia di molte epidemie: le autorità hanno spesso nascosto la presenza di malattie perché possono rendere più problematico governare. Possono creare grandi difficoltà nell’economia e si vede che anche all’inizio di questa pandemia il presidente Trump aveva la tendenza a dire: “Oh, questa non è altro che una comune influenza”. Ha risposto in modo sbagliato. La salute pubblica dipende dalla verità.

Quale sarebbe stata la risposta giusta?

Non ho un piano di preparazione ufficiale, ma ho alcuni principi che ritengo essenziali e che sono alla base della salute pubblica moderna. Non sono miei ma della comunità scientifica internazionale.

La salute pubblica come disciplina scientifica dipende dalla scienza, che dipende dalla verità e dal libero scambio di informazioni. Vale a dire che nessuna politica che sia efficace e scientifica può essere adottata dove non c’è un’informazione adeguata e dove le persone non vengono considerate come parte di questa risposta.

E così sappiamo che mentire al pubblico è distruttivo per le politiche di salute pubblica. E credo che la scienza medica sia una parte essenziale della nostra protezione contro questa malattia.

Non posso dire tutto quello che Donald Trump avrebbe dovuto fare, ma posso dirti che quando ha mentito al pubblico stava facendo un passo profondamente in contrasto con i principi di difesa scientifica del paese e del mondo contro questa pandemia.

Credo che nessuno vorrebbe studiare come ho fatto io per 40 anni la storia delle pandemie, se l’unica cosa che si può dire alla fine di quel lavoro è che si tratta solo di tragedia e distruzione, che non c’è speranza. Credo che a questo punto sarei già impazzito.

Penso che le epidemie, come ho detto, sono uno specchio dell’uomo, ma non sono solo il lato negativo della natura umana, sono anche il lato positivo.

E possiamo ritrovare questo aspetto nella salute pubblica, possiamo ritrovarlo nel sacrificio dei medici e degli operatori sanitari e dei lavoratori dei servizi di prima necessità che ci permettono di sopravvivere a questa sfida.

C’è molto per cui essere grati. La salute pubblica si è evoluta dopo la peste bubbonica. Le misure ideate a Firenze e Venezia durante il Rinascimento sono state l’inizio della sanità pubblica. Stiamo ancora facendo alcune di quelle stesse cose.

In certi casi, come per esempio il vaiolo, una volta contratta la malattia infettiva, se si sopravvive, il sistema diventa immune. Sembra che con Covid-19, non ci sia ancora una certezza scientifica in questo senso. Se sopravvivere alla malattia non desse un’immunità naturale, potrebbe essere anche più complicato sviluppare un vaccino?

Sì, se si è suscettibili dopo la guarigione dalla malattia deve ancora essere dimostrato e studiato. Se fosse vero, avrebbe profonde implicazioni. Una delle caratteristiche che hanno reso più facile sviluppare un vaccino contro il vaiolo era che ciò che si doveva fare era incoraggiare l’organismo a fare qualcosa che la natura aveva già fatto, cioè creare una risposta immunitaria che già esisteva.

Un’altra caratteristica dell’eradicazione del vaiolo era che non c’era nessun animale ospite. E così, se si fosse interrotta la trasmissione della malattia, si poteva essere certi che non sarebbe ritornata per effetto di uno spillover.

Ora, per il coronavirus è molto diverso. Ma c’è anche un’altra caratteristica e questo ci riporta a indagare sul sistema immunitario dei pipistrelli.

C’è un aspetto negativo e uno positivo.

Il positivo è che i pipistrelli vivono molto felicemente con tantissimi coronavirus che non abbiamo ancora classificato, sono completamente sconosciuti, e quindi se si potesse scoprire il segreto del loro sistema immunitario, ciò potrebbe avere implicazioni potenzialmente profonde per lo sviluppo dell’immunità umana a quegli stessi virus.

Il negativo, però, è che ci sono tutti questi coronavirus e ne abbiamo incontrati solo pochi e nessuno ha la minima idea di quello che verrà. E questa è un’altra caratteristica che è preoccupante per uno spillover zoonotico, che è come tutto è iniziato.

Un’altra conseguenza di questa pandemia è l’impatto sull’economia. C’è un modo per proteggere l’economia? Oppure è una conseguenza inevitabile che questa soffra quando le pandemie raggiungono il punto di crisi?

Non ho un modello di come dovrebbe essere un’economia post coronavirus, ma ho alcune premesse su cui mi sembra che un’economia di questo tipo dovrebbe basarsi.

La prima è il riconoscimento che questa pandemia è un game changer, che il mondo non sarà più lo stesso dopo questo evento perché è già chiaro che le sue conseguenze economiche sono molto più profonde di quanto chiunque si aspettasse.

Molti degli spazi di lavoro o dei posti di lavoro che esistevano non torneranno come prima e questo significa disoccupazione su larga scala che dovrà essere affrontata, e significa anche che l’economia non può semplicemente tornare al business as usual. Einstein ha detto che uno dei segni della stupidità è la tendenza a continuare a fare la stessa cosa e a sperare in un risultato migliore.

Dobbiamo mettere da parte il mito di un profitto costante e a breve termine, la visione frenetica e permanente della crescita che non è sostenibile.

Le malattie non affliggono le società in modo caotico, sono eventi ordinati – lo scrive nel suo libro. Quindi, poiché sono eventi ordinati, possiamo usare questo aspetto a nostro vantaggio?

Le malattie non colpiscono le società in modo casuale, ma coinvolgono delle contingenze. Non voglio dire che sono totalmente strutturate, ma seguono una logica intrinseca.

Il setting è molto importante. Quindi, se ho ragione nel dire che le malattie sfruttano questi canali o percorsi stabiliti, visibilmente evidenti, mentre si diffondono nel mondo – questo ha un lato positivo.

Perché se accettiamo il fatto che siamo noi stessi i responsabili, ci guardiamo allo specchio e riconosciamo che siamo stati noi stessi a creare quei percorsi, quelle vulnerabilità, e a costruirle nelle nostre società, significa anche che sempre noi stessi possiamo cambiarle e possiamo alterare quel rapporto con il regno animale. Possiamo fare qualcosa al riguardo e questo proteggerà il pianeta e anche la nostra salute.

Alcuni colleghi sostengono che se potessimo cambiare il nostro rapporto con il regno animale, questo avrebbe un impatto duraturo e sostenibile sulla nostra vulnerabilità alle malattie infettive. C’è una componente ambientale molto importante nella soluzione al nostro problema.

La mia prossima domanda è su un piano molto diverso. Era vero con la peste e purtroppo rimane vero per la Covid-19, che le persone molto spesso muoiono da sole, senza funerali adeguati e a volte senza sepoltura. Come hanno influito le epidemie sul nostro rapporto con la morte?

È una questione filosofica, morale, antropologica e devo dire che potrebbe essere un progetto di ricerca a sé stante che ritengo enormemente interessante e importante. Vorrei poter rispondere alla tua domanda ma so che sto per deluderti. Tutto quello che posso fare è rafforzare la domanda dicendo che è vero che questa è una delle caratteristiche della peste e che la gente si preoccupava enormemente della propria mortalità. E in particolare, questo ha sollevato la questione della morte improvvisa.

Questo significa affrontare domande spirituali: se sei religioso, qual è il tuo rapporto con un Dio che è onnisciente e onnipotente eppure permetterebbe il massacro dei suoi figli? Credo che questo ponesse al centro la questione della fede e del dubbio sulla fede. Nei dipinti della peste, nell’iconografia, c’è il cranio e le ossa incrociate, la realtà della nostra esistenza è in realtà la morte, o la clessidra con le sabbie che si esauriscono, cioè la nostra morte.

Penso che questa domanda possa avere anche un aspetto sociale. Questa epidemia ha portato il concetto di morte nelle nostre vite in un modo in cui prima non era presente. Quando dico “le nostre vite”, ovviamente parlo dell’Occidente. Le nostre società, rispetto ai decenni precedenti, sono entrate sempre meno in contatto con la mortalità e la morte. Naturalmente questo non è assolutamente vero per molte regioni del mondo che oggi sono afflitte da guerre, conflitti, carestie e catastrofi climatiche. In un certo senso invece le nostre “società di conforto” ci hanno allontanato dalla morte. Quindi credo che una parte del motivo per cui ho posto questa domanda sia perché in Italia ora si parla molto di morte in un modo a cui non siamo abituati.

Sono stato molto rattristato dalla scomparsa del grande storico della morte, il francese Philippe Ariès, che ha scritto proprio su questi temi.

Ricordo un suo saggio che credo si chiamasse “Pornografia della morte”. La sua riflessione era di fare della pornografia una sorta di metafora, perché quando la morale vittoriana ha soppresso la sessualità in modo che non potesse trovare, diciamo, normali sfoghi salutari, non sarebbe sparita, ma esplosa in modi pornografici malsani.

Egli ha sostenuto che se si prende questo come modello, lo stesso vale per la mortalità e la morte e che ciò che abbiamo fatto nel mondo moderno è sopprimere la morte in modo da non affrontarla mai, come i vittoriani non hanno mai affrontato la loro sessualità.

E il risultato è che non sappiamo come elaborare il lutto perché la morte avviene all’interno di qualche istituzione e l’istituzione la riordina e se ne prende cura; è l’industria della morte.

La morte non è più personale. E se c’è una “professione della morte” che la riordina, non ci confrontiamo direttamente con la sua realtà e con il suo significato. Credo profondamente che Ariès abbia ragione. Ma non posso sostituire Ariès. E vorrei avere una risposta migliore.

So che è impossibile fare una vera e propria previsione di quanto tempo durerà la pandemia, ma mi chiedo se la storia può aiutarci in questo senso, se possiamo avere un’idea in termini di tempo e di cosa aspettarci nei prossimi mesi.

Non posso fare una previsione precisa. Questo è un punto cruciale da tenere presente perché si tratta di una nuova malattia che è nota all’uomo solo da dicembre.

Di conseguenza, nessuno ne sa ancora molto, e uno dei suoi misteri è ancora la durata del suo assedio su una comunità. Chiaramente non è come l’influenza spagnola che passava sulle comunità nel giro di poche settimane; e all’altro estremo è improbabile che rimanga all’interno di un territorio per anni come la peste bubbonica a volte ha fatto.

Per questo motivo il futuro è molto complesso. Non è chiaro, ad esempio, se Covid-19 diventerà una malattia endemica che ci accompagnerà per molto tempo; se ci sarà una ricaduta una volta che le comunità usciranno dall’isolamento e torneranno al lavoro e ad una vita più normale, e se coloro che sono stati infettati avranno l’immunità.

Immagino che il pericolo di una ricaduta impedirà alle autorità di permettere alla vita di tornare a una qualche versione “normale” per mesi.

Sospetto che il ritmo del cambiamento sarà cauto, poiché sarà necessario vedere se a un tale progressivo allentamento delle regole, seguirà una nuova ondata della malattia.

Credo che il ritorno alla “normalità” sarà quindi lento e graduale, e che alcuni cambiamenti saranno probabilmente duraturi, almeno fino a quando non ci sarà un vaccino efficace, che sarebbe una svolta.

Questa non è una previsione ma un’ipotesi. Il punto principale è che penso che tutti debbano essere consapevoli che questa pandemia è una questione molto seria e che la nostra guarigione non avverrà all’improvviso, tutto in una volta, e nemmeno molto presto. È anche realistico immaginare che alcuni dei cambiamenti nella nostra vita dureranno più a lungo.

https://ilmanifesto.it/lepidemiolog...etale-serve-lassistenza-sanitaria-universale/
 
#87
Il virus peggiore da Lega e Confindustria
Solo schiavi. mmigrati vuol dire soprattutto braccianti, significa sfruttamento schiavista, e sarà importante per sindacati e associazioni tenere alta la guardia verso il coro di voci, padronali e politiche, che ne invocano il ritorno sui campi,

Norma Rangeri
EDIZIONE DEL09.04.2020
PUBBLICATO8.4.2020, 23:59
La cronaca di una tragedia annunciata, in Lombardia, è stata ben spiegata su molti giornali, fatta eccezione di quelli che negano l’evidenza. Non si tratta solo di incompetenza, ma di totale subalternità alle pressioni degli imprenditori che hanno mandato al lavoro centinaia di migliaia di persone nel momento esplosivo della pandemia. E che ora, Confindustria in testa, chiedono di riaprire tutto: prima la borsa poi la vita. Incompetenti se non anche criminali.
Un bel pro-memoria per quanti oggi sollecitano, snocciolando un antico vocabolario, tavoli tecnici, cabina di regia, governo di emergenza in favore delle proposte di Salvini. Come un altro promemoria sulla stoffa della classe dirigente leghista è la commissione d’inchiesta sul disastro delle case di riposo, Pio Albergo Trivulzio in testa, un amarcord italiano che ci riporta indietro di trent’anni.
Oggi il leader leghista annaspa, il Covid19 gli ha tolto lo scettro di imprenditore della paura, e quando appare in tv per chiedere di andare tutti alla santa messa sembra un pugile suonato.
Ora si apre una delicata, rischiosa transizione e proprio mentre il governo è alle prese con la gestione della fase2, soprattutto per la ripresa del lavoro e della produzione, è la questione dell’immigrazione a farsi avanti e a confermarci che con la destra è impossibile condividere la grave emergenza.
Quel che vanno dicendo Salvini e Meloni (proprio lei che diede del “criminale” a Conte per aver osato mettere il dito nella piaga degli ospedali lombardi), è un rigurgito di “prima gli italiani”, una insopportabile propaganda, un altro ipocrita velo che cade dopo quello dell’emergenza sanitaria. E la chiusura dei porti per la pandemia è un pessimo segnale.
Immigrati vuol dire soprattutto braccianti, significa sfruttamento schiavista, e sarà importante per sindacati e associazioni tenere alta la guardia verso il coro di voci, padronali e politiche, che ne invocano il ritorno sui campi, denunciando il bisogno di 200mila braccia per salvare l’agricoltura, magari a colpi di voucher.
Se nulla deve essere come prima, cominciamo da quanti, ricacciati ai bordi delle strade, oggi sono reclamati per piantare i pomodori.

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#88
Il virus peggiore da Lega e Confindustria
Solo schiavi. mmigrati vuol dire soprattutto braccianti, significa sfruttamento schiavista, e sarà importante per sindacati e associazioni tenere alta la guardia verso il coro di voci, padronali e politiche, che ne invocano il ritorno sui campi,

Norma Rangeri
EDIZIONE DEL09.04.2020
PUBBLICATO8.4.2020, 23:59
La cronaca di una tragedia annunciata, in Lombardia, è stata ben spiegata su molti giornali, fatta eccezione di quelli che negano l’evidenza. Non si tratta solo di incompetenza, ma di totale subalternità alle pressioni degli imprenditori che hanno mandato al lavoro centinaia di migliaia di persone nel momento esplosivo della pandemia. E che ora, Confindustria in testa, chiedono di riaprire tutto: prima la borsa poi la vita. Incompetenti se non anche criminali.
Un bel pro-memoria per quanti oggi sollecitano, snocciolando un antico vocabolario, tavoli tecnici, cabina di regia, governo di emergenza in favore delle proposte di Salvini. Come un altro promemoria sulla stoffa della classe dirigente leghista è la commissione d’inchiesta sul disastro delle case di riposo, Pio Albergo Trivulzio in testa, un amarcord italiano che ci riporta indietro di trent’anni.
Oggi il leader leghista annaspa, il Covid19 gli ha tolto lo scettro di imprenditore della paura, e quando appare in tv per chiedere di andare tutti alla santa messa sembra un pugile suonato.
Ora si apre una delicata, rischiosa transizione e proprio mentre il governo è alle prese con la gestione della fase2, soprattutto per la ripresa del lavoro e della produzione, è la questione dell’immigrazione a farsi avanti e a confermarci che con la destra è impossibile condividere la grave emergenza.
Quel che vanno dicendo Salvini e Meloni (proprio lei che diede del “criminale” a Conte per aver osato mettere il dito nella piaga degli ospedali lombardi), è un rigurgito di “prima gli italiani”, una insopportabile propaganda, un altro ipocrita velo che cade dopo quello dell’emergenza sanitaria. E la chiusura dei porti per la pandemia è un pessimo segnale.
Immigrati vuol dire soprattutto braccianti, significa sfruttamento schiavista, e sarà importante per sindacati e associazioni tenere alta la guardia verso il coro di voci, padronali e politiche, che ne invocano il ritorno sui campi, denunciando il bisogno di 200mila braccia per salvare l’agricoltura, magari a colpi di voucher.
Se nulla deve essere come prima, cominciamo da quanti, ricacciati ai bordi delle strade, oggi sono reclamati per piantare i pomodori.

https://ilmanifesto.it/il-virus-peggiore-da-lega-e-confindustria/
Ho letto con trasporto e interesse. Ho trovato tutto interessante e condivisibile. Poi ho capito perché. Alla alla fine c'era un link illuminante: il manifesto!
 
#89
Il gigante della pubblicazione di guide turistiche Lonely Planet è tra i più colpiti dall'improvvisa interruzione dei viaggi globali.


L'editore ha annunciato l'intenzione di chiudere buona parte delle sue attività a Londra e Melbourne. Inoltre, ha dichiarato che ridurrà le sue operazioni per il prossimo futuro, sospendendo la pubblicazione della rivista L.P.
 
#90
Ho letto con trasporto e interesse. Ho trovato tutto interessante e condivisibile. Poi ho capito perché. Alla alla fine c'era un link illuminante: il manifesto!
La Rangeri è disarmante nella sua semplicità: riesce a vedere le cose con limpidezza e immediatamente scevre da tentativi di oscuramento e travisazioni.
Ce ne fossero di giornalisti e intellettuali seri come lei...
 

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